CULTURA

Cosa vi siete persi ad agosto

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CULTURA – Difficile pensare che qualcuno non se ne sia accorto: a meno che non abbiate trascorso il ferragosto in un eremo in montagna o su un’isola non raggiunta da alcun contatto umano, è assai probabile che siate incappati in qualche video in cui una persona si rovesciava in testa un secchio di acqua gelata. O almeno in qualcuno che lo criticava. L’Ice Bucket Challenge è un’iniziativa di raccolta fondi per la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) che si è diffusa in poche settimane sui social network a un ritmo impressionante, innescando una catena di video, donazioni e polemiche. Anche se i risultati della campagna sono davvero notevoli (l’associazione statunitense ASL ha raccolto più di 100 milioni di dollari in un mese, e l’italiana AISLA ha annunciato qualche giorno fa di aver superato i 960.000 euro di donazioni), non è mancato chi ha criticato l’esibizionismo dei video, le scarse donazioni nel nostro paese, lo spreco di acqua e – anche se indirettamente – la scelta di sostenere una malattia che tutto sommato causa pochi morti rispetto ad altre. Rispondendo in qualche modo all’iniziativa, anche Papa Francesco ha fatto sapere su Twitter che preferiva declinare l’invito a partecipare, sostenendo che la generosità di un cristiano è nascosta.

Che ognuno gestisca la sua generosità come crede (qui l’opinione della moglie di un malato di SLA, tradotta sul Post), ma se c’è qualcosa che ribadisce il successo di questa campagna è il sorprendente potere epidemico dei social network.

Un potere che non va sottovalutato, hanno ripetuto alcune associazioni che si occupano di salute mentale in occasione della recente morte dell’attore Robin Williams. La diffusione di notizie sul suicidio di una persona, soprattutto quando si tratta di un personaggio famoso, ha una forte potenzialità di contagio, inducendo comportamenti imitativi negli individui più fragili e a rischio. Per questo è importante, secondo molti, prestare particolare attenzione al mondo in cui si scrive o si parla della notizia; alcune organizzazioni si sono occupate di stilare un vademecum per chi, da giornalista, redattore, social media manager (o anche semplice utente di un profilo su Twitter o Facebook, perché no?) diffonde informazioni su una morte per suicidio.

Se un albero cade nella foresta e nessuno lo sente, non sappiamo ancora se faccia rumore, ma se una scimmia ruba una macchina fotografica e si fa un selfie, di chi sono i diritti dell’immagine? Del fotografo-proprietario dell’apparecchio fotografico o dell’umanità (o della scimmia stessa, suggerisce questo divertente pezzo del New Yorker)? Una disputa tra il fotografo britannico David Slater e Wikipedia, che si rifiutava di togliere l’immagine dal proprio archivio, sembra aver trovato una prima soluzione. Secondo il Copyright Office degli Stati Uniti, «una fotografia fatta da una scimmia» non può avere i diritti d’autore registrati. «L’ufficio non registrerà opere prodotte dalla natura, da animali o piante. Similmente, l’ufficio non può registrare un’opera presumibilmente creata da una divinità o da esseri sovrannaturali, sebbene l’ufficio possa registrare un’opera che sia stata ispirata da uno spirito divino». Una cattiva notizia per le divinità che volessero darsi all’arte, insomma, ma un’ottima notizia per il pubblico.

Dove finiscono i ricordi della nostra infanzia che abbiamo perduto? E perché non riusciamo a ricordare gli eventi dei nostri primi anni di età?

È la nostra risorsa quotidiana se non sappiamo come compilare un documento, come truccarci, come smontare e pulire un carburatore: facciamo una domanda su un motore di ricerca e troviamo una soluzione in pochi minuti. Un progetto coordinato dalla Cornell University sta lavorando a un simile “deposito di conoscenza” online dedicato ai robot: si chiama RoboBrain, e potrebbe permettere alle macchine di assimilare le informazioni disponibili e condivise, esattamente come succede per noi esseri umani.

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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