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La comunicazione della scienza non è neutrale

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RICERCA – Recentemente, il bosone di Higgs ha creato non pochi grattacapi a chi si occupa di comunicazione della scienza. Era un fenomeno abbastanza complesso, immerso in una realtà così piccola da essere quasi inimmaginabile e, certo, chi era incaricato di una prima divulgazione non ha aiutato molto. Esistono tuttavia numerose popolazioni che non solo hanno problemi con il bosone di Higgs, ma hanno una difficoltà a concepire un concetto apparentemente palese come “cinque capre”. I pigmei o gli aranda hanno un sistema di numerazione così composto: uno, due, tre, molti. I boscimani arrivano al cinque, prima di inserire tutto il resto nella categoria “molti”. Attenzione, però: ovviamente questa incapacità di contare oltre i primi numeri è di tipo culturale, non implica assolutamente alcun deficit a livello cognitivo. Semplicemente, oltre i 3 o 5 oggetti non serve – nel loro sistema astrattivo – stare a specificare il numero.  Perché?

Una comunicazione scientifica culturalmente orientata

Un recente studio della Northwestern University mette in luce le difficoltà di comunicare alcuni concetti scientifici a popolazioni che non siano state permeate del sistema culturale europeo. In altre parole, la comunicazione della scienza (e dunque la struttura stessa della produzione scientifica) si basa su modelli a noi perfettamente comprensibili, ma assolutamente avulsi da molte delle culture che popolano il mondo. Uno dei maggiori risultati dello studio implica che il modello culturale occidentale sostanzialmente ha come assunto più o meno esplicito il fatto che l’uomo sia al di fuori della natura.

Non è un mero tentativo di inserire una polemica sulla scarsità di multiculturalismo nella scienza, piuttosto il porre un problema realmente concreto. Prendiamo un esempio a noi contemporaneo: ebola. È cosa nota che uno dei maggiori problemi soprattutto all’inizio dell’epidemia è stato uno “scontro di civiltà” tra tradizioni di sepoltura locali e necessità sanitarie. Il problema non era scientifico: l’infettività di ebola è alta quando una persona è appena deceduta, questo è un fatto. Il modo con cui però questa conoscenza si è scontrato con la cultura locale ha creato dei seri danni, non solo da un punto di vista sanitario, ma anche da un punto di vista sociale e politico. Ma la domanda sorge spontanea: più che avvertire di non toccare i cadaveri, cosa altro dovevano fare i governi e l’Organizzazione Mondiale della Sanità?

Neo-animismo contro la scienza

Ebola e casi simili sono certamente esempi di scontro drammatico tra visioni del mondo, nati da un approccio violento al mix culturale. La violenza e, quindi, l’incomunicabilità è derivata da due processi; da una parte il colonialismo inseriva dei concetti occidentali che rimanevano impermeabili alle tradizioni e alle credenze locali; dall’altra, nel mentre avveniva il convulso processo di decolonizzazione, proprio quei concetti venivano violentemente attaccati quando era in corso il processo di costruzione di un’identità nazionale. Pensiamo all’ex presidente del Sud Africa, Thabo Mbeki, discepolo di Mandela e cresciuto e vissuto per 28 anni in Gran Bretagna. Pur essendo in tutto e per tutto figlio di una cultura politica occidentale, in ambito sanitario-culturale non ha mai abbandonato la sua convinzione che i rimedi tradizionali contro l’AIDS siano migliori delle cure anti-retrovirali (ancor più famoso il caso del suo delfino, Jacob Zuma, che era sicuro di non aver preso l’HIV perché dopo il rapporto “si era fatto la doccia”). Non tutto è perduto però: ci sono molti esempi di come concetti attinenti alla razionalità scientifica si siano armonizzati con visioni del mondo olistiche e animiste.

Il modello giapponese

Il Giappone, che certo non può essere tacciato di anti-modernità, ne è un esempio. Il connubio tra cultura tecnologica e scientifica occidentale e shintoismo è talmente radicato e ben amalgamato da essere entrato anche nella cultura pop e commerciale: Jeeg Robot d’acciaio è la metafora, evidente, dell’unione tra la tecnologia di stampo occidentale e comportamenti tipici dei Kami, le divinità locali, della protostoria dell’Impero giapponese (per la cronaca, Mazinga Z si riferisce, invece, alla tradizione di creare piccoli manufatti meccanici tipici di Rodi nel periodo ellenistico).

Ma non importa andare nemmeno fino in Estremo Oriente: la numerazione latina conserva ancora intatta una traccia di un passato panteistico e olistico, molto simile a quella dei pigmei o aranda: i primi 3 numeri latini, infatti, sono declinabili e hanno un genere, dal quattuor (etimologicamente legato a cetera ovvero “il resto” e al greco ‘eteros “diverso da”) in poi, invece, sono indeclinabili. I francesi, addirittura hanno portato fino a noi la concezione dell’uomo come parte integrante del mondo: très (“molto”), infatti, non ha bisogno di complicate etimologie per risalire alla sua radice!

Insomma, nello studio della Northwestern University, si afferma che “i risultati suggeriscono che la comunicazione della scienza formale e informale non è culturalmente neutrale, ma piuttosto incamera dei particola concetti culturali che [sottintendono] l’esclusività dell’uomo rispetto alla natura”. Nessun tipo di comunicazione, per definizione, può essere culturalmente neutro, ma forse si può fare uno sforzo e tornare finalmente a credere di essere parte della natura e non soggetti parzialmente estranei o addirittura padroni di essa. Non sarebbe un tentativo di introdurre un multiculturalismo impedente, piuttosto assumere la consapevolezza che il mondo non si esaurisce nel razionalismo di stampo ottocentesco e che le altre culture possono fornire punti di vista complementari.

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Pascal Guyot/AFP

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