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Il cinema di fantascienza

Dai precursori a oggi: i film che hanno fatto la storia della fantascienza

SPECIALE OTTOBRE – In attesa di poter vedere (esce a novembre) Interstellar, film di Christopher Nolan con Matthew McConaughey che promette di riportare in auge la missione spaziale per salvare la Terra, e mentre ci apprestiamo a gustare a Trieste Science + Fiction il ritorno di Alex de la Iglesia (Le streghe son tornate) e di Nacho Vigalondo (Open Windows, con Elijah Wood e Sasha Grey), oltre che Liev Schreiber dentro alla tuta da astronauta (Last Days On Mars di Ruairi Robinson) proviamo ad andare alla radice del genere e seguirne alcuni sviluppi.

Definizioni di genere

Che cosa sia davvero il cinema di fantascienza oggi, è difficile dirlo. Vi rientra un film come l’ultimo di Alex de la Iglesia, una commedia in salsa fanta in cui dei ladri si trovano ad affrontare un gruppo di streghe. E sembra rientrarvi anche il genere supereroistico di Marvel e affini. Film che non rientrerebbero nella definizione di fantascienza che John Wood Campbell jr. usava da direttore di Astounding Science Fiction negli anni Quaranta e Cinquanta: un’ipotesi del futuro basata sulla proiezione nel futuro di un aspetto probabile della società e della tecnologia di oggi. Nemmeno un’icona del genere, quel 2001: Odissea nella spazio (Stanley Kubrik, 1968) che ha segnato uno spartiacque netto nello sviluppo del genere, sembra del tutto ricadere in questa cerchia (non è quel futuro ottimista basato sulle conoscenze tecno-scientifiche), eppure lo riconosciamo senza indugi nel genere.

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Non rientrerebbero nemmeno quelli che tradizionalmente vengono indicati come classici precursori. Ad iniziare dal Voyage dans la Lune di George Melies (1902), il primo viaggio fuori dalla Terra raccontato al cinematografo, con immagini figlie di un raffinato uso di trucchi artigianali. Melies è più legato al genere della fiaba, così come i film degli anni Trenta di James Whale (Frankenstein del ’31, L’uomo invisibile del ’33 e La moglie di Frankenstein del ’35), che pure giocano con laboratori, scienziati ed esperimenti, sono da ascrivere più al genere horror o gotico più che alla fantascienza in senso stretto. Ciò non toglie che abbiano avuto un ruolo determinante nel definire un immaginario. A questi precursori, in uno sguardo comunque a volo d’uccello, vale però almeno la pena ricordare il King Kong di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack (1933) e la figura di Fritz Lang, autore tedesco celebre nella fantascienza per il suo Metropolis (1926).

Il secondo Dopoguerra e l’esplosione

Come nel caso della narrativa fantascientifica, anche il cinema esplode negli anni Cinquanta e negli Stati Uniti. Il paese è ricco e in crescita (è il periodo in cui nascono i baby boomers), ma si sente comunque minacciato dal clima della Guerra fredda. La fantascienza diviene il luogo ideale per dare sfogo alle paure dell’altro, del diverso e allo stesso tempo intrattenere con stratagemmi spesso non molto più raffinati dell’azione da B-movie. Eppure la produzione è vastissima e tra i tanti film dimenticabili, usa e getta, si trovano veri capolavori o comunque film emblematici del genere. Come L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956), che con l’invasione degli aliene dà voce alla paura dell’arrivo dei sovietici in casa propria, La guerra dei mondi di Byron Haskin (1953) tratto dal romanzo di H.G. Wells e Ultimatum alla Terra di Robert Wise (1951). Film che in alcuni casi possono anche addirittura rientrare in un filone di propaganda anticomunista, con una netta distinzione tra buoni e cattivi, bene e male. Fuori dagli Stati Uniti è da ricordare l’icona Godzilla di Ishiro Honda (1954), riproposto recentemente nel reboot di Gareth Edwards.

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Negli anni Sessanta anche al cinema fa il suo ingresso la riflessione sociologica e filosofica. I film di fantascienza, prima tutti azione e pericolo, si fanno anche più riflessivi e critici. Non deve stupire, ripensando alla successione di avvenimenti che caratterizzano la storia americana del decennio: l’episodio della Baia dei Porci, la crisi dei missili di Cuba, l’assassinio del presidente Kennedy, l’inizio della Guerra del Vietnam. Paure sociali che si incarnano in un film come The Manchurian candidate (1962, in italiano: Va’ e uccidi) di John Frankenheimer. Con un cast di prim’ordine (Frank Sinatra, Lawrence Harvey e Janet Leigh), mette in scena un tentativo di assassinio del presidente attraverso un veterano della Corea che ha subito il lavaggio del cervello dai comunisti e può essere telecomandato come un automa. Viene rifatto nel 2004 da Jonathan Demme: cambia la guerra (dalla Corea alla prima Guerra del Golfo), ma il miscuglio di fantapolitica e thriller non cambia, a testimonianza di un connubio tra fantascienza e politica che rimarrà duraturo nei decenni, specialmente quando si interseca con il complottismo (vedi, per esempio la serie X-Files).

In questo periodo comincia anche ad andare in onda Star Trek che rinverdisce il genere della space opera, e noti autori di narrativa vengono chiamati a collaborare con gli studios. È il caso di Isaac Asimov per Viaggio allucinante del 1966 e Arthur Clarke per 2001: Odissea nello spazio. Di questo periodo è da tenere a mente almeno Il pianeta delle scimmie del 1967 e il fatto che si cominciano a produrre film di fantascienza anche in Europa. La nouvelle vague francese ci mette Agente Lemmy Caution – Missione Alphaville di Jan-Luc Godard (1965), Je t’aime, je t’aime di Alain Resnais (1968) e Fahrenheit 451 di Francois Truffaut (1966). In Italia i due autori più prolifici sono Mario Bava (suo Terrore nello spazio del 1965 che ha influenzato Alien di Ridley Scott del 1979) e Antonio Margheriti (Space men del ’60 e I criminali della galassia del ’66).

Anni Ottanta: età d’oro?

A giudicare dal numero di film che si sono incastonati in maniera indelebile nell’immaginario collettivo (a volte generando anche merchandise miliardario) verrebbe da pensare che se per la narrativa la golden age è il ventennio Quaranta – Sessanta, per il cinema lo è la decade degli Ottanta. Con alcuni prodromi: almeno Guerre Stellari di George Lucas (1977), Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg (1977) e  Alien. Gli anni Ottanta mettono in fila una serie impressionante di titoli celebri, possibili sia per lo sganciamento dagli stilemi degli anni Cinquanta, sia per le possibilità tecniche conquistate al cinema in questo periodo. Escono così: Blade Runner di Ridley Scott, La cosa di John Carpenter e Tron di Steven Lisberg (tutti del 1982); poi Terminator di James Cameron (1984), La mosca di David Cronenberg (1986), Robocop di Paul Verhoeven (1987), la trilogia di Ritorno al futuro firmata da Robert Zemeckis (tra il 1985 e il 1990). Molti sono anche grandissimi successi commerciali, fatto che sembra indicare come la fantascienza cinematografica stia uscendo dalla nicchia del genere per invadere il cinema di massa e i blockbuster.

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Si tratta di un tendenza che si prolunga almeno in parte anche nel decennio successivo, quando escono film autoriali importanti come L’esercito delle dodici scimmie di Terry Gilliam (1995), Gattaca di Andrew Niccol (1997) e Dark City di Alex Proyas (1998). Ma sono anche gli anni di altri fenomeni di massa, come The Matrix dei fratelli Wachowski e interpretato da Keanu Reeves, che ripropone tematiche cyberpunk in salsa filosofica, e di campioni al botteghino come Indipendence Day di Roland Emmerich con Will Smith.

Le innovazioni tecniche

Negli ultimi vent’anni, da quando cioè la fantascienza ha definitivamente rotto gli argini ed è diventata parte integrante, ma per fortuna non solo, delle grande produzioni internazionali, si è potuta sempre avvantaggiare delle ultime innovazioni tecnologiche per ottenere le scene più spettacolari e le riprese più interessanti. Tutto con lo spirito di rendere realistico qualcosa che è, per sua natura, irreale. Qui ricorderemo solamente tre esempi. Il primo è il bullet time, una tecnica resa nota dalle spettacolari scene di azione di Matrix. Basata sull’utilizzo di una grande quantità di fotocamere superveloci in una spirale. L’effetto permette una slow motion in cui la telecamera sembra girare attorno al soggetto. Per vedere come funziona, potete fare ricorso a Youtube.

Sette anni più tardi, lo stile estetico di A Scanner Darkly, film con Keaunu Reeves (ancora lui!) e basato sull’omonimo romanzo di Philip Dick, ha portato agli onori delle cronache la tecnica dell’animazione digitale in rotoscope: gli attori vengono filmati in digitale e poi trasformati in un processo che per il film di Linklater ha richiesto 15 mesi di post-produzione. Infine, Avatar, il film monstre (per costi: 237 milioni di dollari) di James Cameron. Uscito nel 2009, ha segnato lo standard dell’uso del 3D al cinema. Se la trama è un po’ debole, sono impressionanti le risorse che sono state investite per ricreare le creature blu e i vasti paesaggi alieni del film.

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I film migliori, però, non si basano solamente sull’utilizzo spettacolare della tecnica, ma su costruzioni narrative e, a volte, sociologiche innovative. In fondo, di 2001: Odissea nello spazio quello che più rimane allo spettatore è l’impianto filosofico e psicologico che Kubrick ha scelto di rappresentare, e lo stesso vale per un capolavoro del cinema come Solaris di Andrej Tarkovsky (1972). Ed è una strada che hanno continuato a battere anche grandi produzioni, come Gravity di Alfonso Cuaròn (2013), o piccole e indipendenti come quella di Moon di Duncan Jones (2009). Insomma, c’è ancora un futuro da esplorare. E guardare.

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Marco Boscolo
Science writer, datajournalist, music lover e divoratore di libri e fumetti datajournalism.it