SALUTE

Malattie rare: passi in avanti per capire la malattia di Behçet

Da Firenze un nuovo studio mette in luce il ruolo del microbioma per migliorare la patogenesi della malattia. E apre la strada a future possibili novità in campo diagnostico e terapeutico

BehcetSALUTE – Passi in avanti nel campo delle malattie rare, in particolare per quanto riguarda la sindrome di Behçet, una vasculite sistemica, ovvero un’infiammazione dei vasi sanguigni, sia di piccolo che di grande calibro, che colpisce inoltre la cute e le mucose, così come gli occhi, il sistema nervoso centrale, e il tratto gastro-intestinale, causando talvolta danni anche permanenti.

Oggi un gruppo di ricercatori dell’Università di Firenze, in collaborazione con l’Istituto di Tecnologie Biomediche CNR di Milano ed il Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell’Università di Bologna, ha pubblicato su Autoimmunity Reviews i risultati di oltre tre anni di ricerche sull’origine della malattia, focalizzandosi sul cosiddetto microbioma, ovvero l’insieme dei batteri e dei loro genomi, presente diffusamente nell’organismo, soprattutto a livello intestinale.La ricerca è stata sostenuta dall’Associazione Italiana Malattia e Sindrome di Behçet (SIMBA onlus).

In particolare i ricercatori hanno sequenziato per la prima volta il microbioma in persone colpite da Behçet, e hanno scoperto che la sua alterazione in questi pazienti può modificare la risposta del sistema immunitario, attivando così meccanismi “autoaggressivi”. Inoltre, i risultati hanno mostrato una significativa riduzione di butirrato, uno dei principali prodotti di fermentazione a partire dai polisaccaridi, nei pazienti con Behçet. Il butirrato infatti, oltre ad avere funzioni energetiche per le cellule del nostro intestino, determina a sua volta alcune modificazioni nella risposta del sistema immunitario.

“La sindrome di Behçet è una malattia che colpisce solitamente uomini e donne giovani, perlopiù dai 30 ai 40 anni e non è ereditaria” racconta Giacomo Emmi, uno dei ricercatori firmatari dello studio. “In Italia interessa circa 700 persone, ma la cifra è senza dubbio sottostimata dal momento che solo a Firenze abbiamo in cura oltre 200 pazienti.” Il primo problema di questa malattia è una difficoltà dal punto di vista diagnostico. Non vi sono specifici biomarcatori o test specifici e quindi la diagnosi resta sostanzialmente clinica. “I sintomi principali sono la presenza di frequenti ulcere in bocca ed a livello genitale, infiammazione agli occhi (uveite) e, appunto, l’interessamento dei vasi sanguigni, con la comparsa di eventi trombotici. Possono esservi inoltre possibili episodi di diarrea, dolori articolari, e alterazioni a livello della pelle, come pustole. “Questi sintomi, che possono anche presentarsi non in contemporanea tra loro, si ritrovano anche in altre patologie, ragione che facilita un ritardo diagnostico della malattia.”

In ogni caso, anche se ad oggi non esiste una cura in grado di guarire definitivamente dalla malattia, esistono molti farmaci in grado di controllarla e mantenerla in remissione a lungo. “C’è da precisare che allo stato attuale delle cose siamo ancora lontani dalla comprensione globale dei meccanismi che portano alla comparsa della malattia, ma i passi in avanti non mancano. La nostra ricerca ha messo in luce che il profilo del microbioma della sindrome di Behçet, è simile a quello di un’altra malattia autoimmune più nota, il morbo di Crohn, un’infiammazione cronica dell’intestino.” Questa somiglianza con la malattia di Crohn potrebbe aprire la strada a studi basati sulla somministrazione di probiotici, o modificazioni della dieta, che si auspica potrebbero aiutare l’organismo a ristabilire un corretto microbioma nel soggetto malato. “Un’ulteriore prospettiva riguarda il trapianto di feci, cioè la possibilità di inserire componenti fecali di donatori sani modificate ad hoc nell’intestino del malato per ristabilire un microbioma non alterato.”

Al momento dunque non si è in grado di fornire una concreta possibilità di guarigione dalla malattia di Behçet, ma i risultati ottenuti sul microbioma e sui suoi effetti sul sistema immunitario sono incoraggianti dal punto di vista della patogenesi, cioè dell’analisi di come si origina e si evolve la malattia. “La nostra ricerca è durata tre anni – conclude Emmi – e per far fronte agli ulteriori quesiti che ha posto sia dal punto di vista della patogenesi, che delle ricadute terapeutiche, come per esempio la possibilità di utilizzare i probiotici, ci vorrà almeno ancora un periodo altrettanto lungo”.

@CristinaDaRold

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Crediti immagine: Filip em, Wikimedia Commons

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.