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Lotta al junk food

Diversi Paesi hanno messo in atto politiche alimentari contro il consumo di junk food. Ma sono davvero utili?

4659262210_288b509d2a_zSPECIALE – Il sovrappeso e l’obesità sono argomenti di salute pubblica tutt’altro che trascurabili, sostiene l’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale la maggior parte della popolazione mondiale vive in nazioni dove l’obesità e il sovrappeso, per l’appunto, uccidono più della malnutrizione. Stando ai recenti numeri riportati dall’OMS l’obesità a livello globale è duplicata rispetto al 1980. Nel 2014, il 39% della popolazione adulta mondiale era in sovrappeso e il 13% obesa. I numeri più preoccupanti riguardano i bambini: nel 2013 si contavano 42 milioni di obesi sotto i cinque anni.

Le ricadute socio-sanitarie e economiche di questo problema sono notevoli, per questo diversi Paesi hanno attuato, o pensano di farlo, politiche alimentari ad hoc per cercare di arginare il problema. Ad essere colpiti in primis, come prevedibile, bibite gassate, energy drinks e cibo spazzatura, il cosiddetto “junk food”.

Tassa sul junk food: utile o no?

La prima nazione ad aumentare le tasse su tutti gli alimenti contenenti zucchero fu la Norvegia, già nel 1981, seguita da Australia, Ungheria, Danimarca e Francia. Un caso interessante da analizzare riguarda proprio l’Ungheria, che ha introdotto nel settembre 2011 un sistema di tassazione contro gli alimenti contenenti grassi saturi, zuccheri e caffeina. Il tasso di obesità in territorio ungherese è di oltre il 18%, contro una media europea del 15%, mentre l’aspettativa di vita è inferiore a quella comunitaria. Anche se si dovrà attendere ancora qualche anno per capire gli effetti a lungo termine che questa legge sta avendo sulla salute degli ungheresi, si possono già contare gli effetti più immediati. Al fine di evitare l’aggravio delle accise, infatti, ben 3 aziende su 10 hanno riformulato i proprio prodotti, eliminando gli ingredienti tassati, mentre circa il 70% ha ridotto i livelli di zuccheri, caffeina e sale. L’aumento dei prezzi ha, inoltre, sfavorito i consumi di queste categorie di prodotti, che sarebbero diminuiti di circa il 25-35%. Ultimo aspetto, ma non meno importante, con il denaro derivato dall’aumento delle tasse – circa 68 milioni di euro – sono state finanziate campagne di promozione per una corretta educazione alimentare. La Danimarca, con una tassa che colpisce gli alimenti con un contenuto di grassi saturi superiore al 2,3%, prevede di diminuire, o se non altro di non aumentare, la tassazione sui redditi dei lavoratori. Lo stesso in Germania, dove si sta discutendo la soda tax, un aumento dell’IVA per tutti gli alimenti che contengono più di 275 calorie ogni 100 grammi. Il Parlamento del Messico, infine, paese con un altissimo tasso di obesità e di incidenza di diabete giovanile, ha approvato una legge in cui si stabilisce l’innalzamento dei prezzi di circa l’8% per gli alimenti ricchi di grassi, sale e zuccheri e di 50 centesimi di euro per ogni litro di bevande zuccherate. In Italia fu il ministro della Salute Balduzzi a proporre, nel 2012, di introdurre una tassa sulle bevande gassate, proposta che fu aspramente criticata e infine bocciata. Da allora niente di significativo è stato fatto nel nostro Paese per limitare l’uso di cibo “spazzatura”.

Le perplessità sull’utilità di queste azioni legislative non mancano. Servono davvero a ridurre il consumo di junk food e a migliorare la salute? Secondo gli scettici la riposta è no. Aggiungere una tassa di pochi centesimi su una bevanda zuccherata o su un hamburger servirebbe solo a prelevare più soldi dalle tasche dei cittadini, senza avere in realtà un reale effetto sulle loro abitudini alimentare. Questa tesi è sostenuta da un articolo apparso sul British Medical Journal, che riporta l’opinione emersa dalla 65esima Assemblea Mondiale sulla Salute svoltasi a Ginevra nel 2012: solo un aumento della tassazione pari al 20%, unito a sussidi per l’acquisto di cibi “sani”, potrebbe portare qualche beneficio alla salute pubblica.

Domande che fanno riflettere e mense scolastiche

Quali allora le possibili alternative per disincentivare il consumo di alimenti non salutari? Uno studio di qualche anno fa, pubblicato sull’American Journal of Public Health, ha analizzato gli acquisti di 400 bevande da distributori automatici posti in diversi centri commerciali a Baltimora. I ricercatori hanno poi affisso cartelli agli stessi distributori con domande del tipo: «Sai che per smaltire le calorie di una bottiglia di bibita zuccherata o di succo di frutta occorrono circa 50 minuti di corsa?», «Sai che una bottiglia di bibita zuccherata o di succo di frutta fornisce circa 250 calorie?». Questo è stato sufficiente a ridurre di circa il 50% il consumo di energy drinks e bevande zuccherate, a prova del fatto che una corretta informazione, più che un aumento dei prezzi, può influenzare positivamente le nostre abitudini alimentari.

Infine, un aspetto da non sottovalutare assolutamente, secondo le ultime ricerche epidemiologiche, è l’importanza delle corrette abitudini alimentari da promuovere sin dall’infanzia, dedicando sforzi e attenzioni alle mense scolastiche. Un’indagine  sulla ristorazione scolastica negli Stati Uniti pubblicata su JAMA Pediatrics ha dimostrato che più è sano ed equilibrato il cibo proposto nelle mense scolastiche, minore è la percentuale di obesità registrata tra gli studenti che la frequentano. In Italia esistono linee guida di riferimento per la ristorazione scolastica, emanate dal Ministro della Salute nel 2010, che promuovono una dieta mediterranea ed equilibrata ma non sono obbligatorie. Questa quindi potrebbe essere, insieme a una corretta informazione rivolta a giovani e famiglie, una strada percorribile per promuovere una sana consapevolezza alimentare.

@silvia_reginato

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Crediti immagini: Tavallai, Flickr

 

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