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A tavola con l’estinzione

La frenetica produzione alimentare ci sta nascondendo un fatto: a causa dell'uomo, anche gli ingredienti più comuni stanno rischiando l'estinzione

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APPROFONDIMENTIO – Quando ci sediamo a tavola, il cibo ci sembra un bene immutabile. Specialmente qui, in Italia, dove la tradizione culinaria ha radici così forti e profonde. Tuttavia consumiamo troppo: cambiamento climatico, globalizzazione (e dunque specie invasive) e la pressione selettiva imposta dalla sempre maggiore produttività potranno portare, in un futuro più prossimo di quanto crediamo, a non poter avere più alcuni cibi così comuni. Di esempi ce ne sono tanti, ne abbiamo scelti tre, forse i più indicativi (e meno noti).

Olio

Di stime ne girano molte: più del 50%, il 30%, il 17%. In ogni caso un calo vertiginoso della produzione dell’olio di oliva. Non solo un condimento che trasporta con sè tutta una serie di tradizioni, culture e paesaggi, ma anche un mercato che produce tre milioni di tonnellate di olio vergine all’anno. Il fatto certo è che sicuramente in alcune regioni la produzione si è dimezzata, specialmente in Liguria e Toscana: tanti piccoli produttori, che spesso garantiscono l’eccellenza, hanno preferito lasciare l’olive vizze e annerite sull’albero, piuttosto che strizzare un prodotto scadente. E così il prezzo dell’olio è impennato.

Le cause sono molte, tutte concatenate l’una all’altra. Pioggia, troppa pioggia nei mesi primaverili e estivi. Una pioggia continua che ha inzuppato i terreni, quando l’ulivo, simbolo del clima mediterraneo, ha bisogno del secco per far maturare per bene l’olive. Ma questo clima che dà evidenti segni di squilibrio è responsabile anche del colpo di grazia alle coltivazioni. Il clima umido e sostanzialmente mite ha creato le condizioni ideali per un attacco generalizzato all’ulivo da parte del suo principale parassita, la mosca olearia (Bactrocera Oleae). Questo insetto depone le uova nel frutto affinché le larve si possano nutrire della polpa. Ma se le larve si mangiano la polpa, al contadino rimane ben poco da frangere: il rischio di frodi alimentari, specialmente quest’anno, è altissimo.

Banane

Così comune che difficilmente riusciamo a immaginare che presto potremmo non riuscire a mangiarla più, almeno nella forma, nelle dimensioni e nel gusto che conosciamo oggi. Da sempre l’uomo ha forzato la normale selezione naturale per trasformare le piante selvatiche in piante con frutti più grossi e polposi, adatte alle esigenze economiche e nutrizionali. Tali varietà domestiche prendono il nome di cultivar. Pensate che la differenza tra il mais domestico e quello selvatico è questa, e la banana in natura ha questo aspetto.

I miglioramenti genetici hanno permesso all’uomo di impiegare meno energia e ottenere più nutrimenti, e hanno avuto anche vantaggi per le piante stesse. Ma con le banane siamo andati decisamente oltre, dovendo soddisfare un mercato in continua crescita (nel 2012 ne sono state prodotte più di 100 milioni di tonnellate). Il 95% delle banane oggi in commercio provengono da una sola cultivar, la cavendish. Non solo. Tutte le cavendish coltivate oggi sono cloni di poche migliaia di piante originali: si è spinto la pianta a produrre più polpa, col risultato che ormai i semi sono del tutto sterili. L’unica possibilità di propagazione è quello di piantare i germogli di una pianta nel terreno, attraverso il metodo della talea. Il risultato è che le piante hanno tra di loro una differenza genetica minima e quindi un sistema immunitario praticamente identico, che ha portato una fragilità enorme tra le coltivazioni di banani.

Con i cambiamenti climatici in atto, la popolazione di due parassiti naturali della pianta, il Diaspis boisduvalii e la Pseudococcus elisae (una cocciniglia) stanno esplodendo. Nel Costa Rica, uno dei maggiori produttori mondiali di banane, nel 2013 alcune piantagioni hanno dovuto distruggere anche l’85% del raccolto. L’epidemia, quest’anno, non sembra essersi fermata, anzi.

Sushi

Non è certo un alimento così diffuso come l’olio e le banane, ma la sua crescente e ormai consolidata popolarità sta producendo effetti pesantissimi sulle popolazioni ittiche naturali. Al punto che il più grande maestro di sushi al mondo, Jiro Ono, ha lanciato l’allarme: tra pochi anni, non potremo più mangiare il sushi, almeno non con i pesci che vanno per la maggiore. Le due principali varietà di pesce utilizzate nel sushi stanno scomparendo dai mari, e molte di queste non si possono allevare in cattività (ammesso che questa sia veramente una soluzione).

Le popolazioni di tonno rosso continuano a collassare, cercare di riprendersi e collassare di nuovo: dalle circa 34.000 tonnellate degli anni ’50, oggi si riescono a pescare a malapena 9.000 tonnellate. Il salmone è passato da 10.800 tonnellate di pescato alle attuali 2.100. Il pesce sta finendo, e con esso anche tutte pietanze di cui è l’ingrediente principale.

@gia_destro

Leggi anche: Quanto siamo (im)preparati alla de-estinzione

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Crediti immagine: USDA ARS, Flickr

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