SCOPERTE

Come il clima ha favorito la diffusione della peste. Quali scenari futuri?

Le epidemie di peste di Secoli fa furono dovuti alle oscillazioni climatiche in Asia che, variando le popolazioni locali di roditori, indussero le pulci infette a cercare nuovi ospiti. Cambiamenti climatici che in questo periodo stanno comportando uno spostamento delle zone di epidemia e delle modalità di diffusione

7316086176_d95bc87f19_zSCOPERTELa peste che colpì l’Europa tra il XIV e il XIX Secolo fu causata dalle oscillazioni climatiche nell’Asia centrale. Questo il risultato di uno studio pubblicato sul “Proceedings of the National Academy of Sciences” da un team di ricercatori delle Università di Oslo e Berna.

La peste è una malattia infettiva causata dal batterio Yersinia pestis, trasmessa attraverso i roditori da pulci infette. L’epidemia forse più nota fu la Peste Nera esplosa nel 1347, ma furono molti i focolai che si riaccesero fino addirittura al XIX Secolo e che  portarono morte nel continente europeo.

Quale fu la causa di questi nuovi focolai? Finora si credeva che con l’arrivo della peste in Europa, il batterio si fosse stabilizzato nella fauna selvatica locale e nei roditori, come dei “serbatoi” di batteri che sarebbero sopravvissuti per secoli.

Per vederci più chiaro e capire quali fossero questi serbatoi, alcuni scienziati delle Università di Oslo e Berna hanno analizzato i dati disponibili di 7711 focolai di peste, cercando di metterli in relazione con i cambiamenti climatici di Europa e Asia. I dati meteo-climatici sono stati ottenuti dagli studi sugli accrescimenti annuali degli alberi (registrazioni dendrocronologiche).

I risultati sembrano convergere sul fatto che, a eccezione della zona del Mar Caspio, non si siano mai conservati dei serbatoi di batteri della peste in Europa (ad esempio nei roditori). Non solo: è stata invece trovata una correlazione con le variazioni climatiche in Asia.

I ricercatori si sono quindi chiesti se non potrebbe essere proprio questo il motivo della diffusione della peste nei Secoli successivi e la risposta sembra essere affermativa. Si tratterebbe infatti di periodiche reintroduzioni della malattia dall’Asia, a causa della variazione repentina delle popolazioni locali di roditori causate dai cambiamenti climatici. Questa teoria sarebbe confermata dal fatto che gli eventi climatici precedevano di circa 15 anni la comparsa di nuovi focolai in Europa.

Secondo i ricercatori i principali vettori di pulci infette con il bacillo della peste, come il grande gerbillo, lo scoiattolo delle steppe o la marmotta grigia, hanno subito più volte forte diminuzioni della propria popolazione con le fluttuazioni climatiche. Questo avrebbe comportato un aumento relativo di pulci infette e la ricerca di ospiti alternativi, come i cammelli. Proprio i cammelli, usati durante le lunghe traversate verso il Mediterraneo, sarebbero stati la causa dei nuovi focolai di peste fino a pochi secoli fa.

Questa notizia è di forte interesse anche alla luce di un nuovo studio, pubblicato da un team di ricercatori del  Dipartimento per l’agricoltura degli Stati Uniti e dell’Università del Nebraska a Lincoln, pubblicato sul  “Philosophical Transactions of the Royal Society B”.

In questa analisi si sostiene che molti parassiti, un tempo confinati in ristrette regioni del mondo, si stiano diffondendo con grande facilità in nuove aree a causa dei cambiamenti climatici. Un vero e proprio spostamento delle zone di pandemia di molte malattie infettive e uno scenario piuttosto preoccupante, visto che non saremmo preparati a focolai ed epidemie di queste malattie.

L’allarme nasce dalla scoperta che se è vero che batteri e animali a stretto contatto tra loro per lungo tempo risultano “adattati”, non è vero che questo protegga dall’infezione di nuovi ospiti. Sembra infatti che “salti” verso nuove specie avvengano più rapidamente di quanto si pensasse. Questo perché secondo alcuni studi molti parassiti che oggi sono a contatto con poche specie, ne hanno infettate molte di più in tempi lontani.

Dunque sembrerebbe che questi patogeni non abbiano perso la capacità di infettare nuovi ospiti. Non solo: non avendo sviluppato resistenze, questi nuovi ospiti sono anche più suscettibili alle infezioni. Uno scenario che Daniel R. Brooks, tra gli autori dello studio, ha commentato così: “Non ci sarà un’epidemia che spazzerà tutti dal pianeta, ma tante epidemie localizzate che metteranno sotto pressione i nostri sistemi sanitari”.

Quest’analisi, oltre a preoccupare gli esperti, deve far riflettere sulle strategie da mettere in atto per garantire la salute pubblica. Trattare i casi infetti di nuove malattie, ad esempio sviluppando farmaci e vaccini potrebbe non essere sufficiente. È necessario anche analizzare l’eventuale presenza di serbatoi animali dei patogeni e ricostruire la loro distribuzione geografica, com’è stato fatto a posteriori per la peste. In questo modo si potranno sviluppare strategie per ridurre il contatto con i serbatoi e quindi adottare misure più efficaci per limitare il rischio di infezioni. Un modo di operare che ha già portato alcuni successi, come per limitare l’incidenza della febbre gialla o della malaria.

@FedeBaglioni88

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: NIAID, Flickr

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Federico Baglioni
Biotecnologo curioso, musicista e appassionato di divulgazione scientifica. Ho frequentato un Master di giornalismo scientifico a Roma e partecipato come animatore ai vari festival scientifici. Scrivo su testate come LeScienze, Wired e Today, ho fatto parte della redazione di RAI Nautilus e faccio divulgazione scientifica in scuole, Università, musei e attraverso il movimento culturale Italia Unita Per La Scienza, del quale sono fondatore e coordinatore. Mi trovate anche sul blog Ritagli di Scienza, Facebook e Twitter @FedeBaglioni88