IN EVIDENZA

Fibrosi cistica e gravidanza

Sempre più donne malate diventano madri, ma i rischi sono ancora molti. Tra test di popolazione quasi inesistenti e Legge 40

218574269_c5adeb36f5_z
APPROFONDIMENTO – Nella puntata precedente del nostro speciale sulla fibrosi cistica, abbiamo raccontato i tratti principali della malattia: quante persone ne sono colpite, che cosa significa ogni giorno vivere con questa zavorra che ti riempie i polmoni. Abbiamo raccontato la storia di Anna e di quelli che come lei arrivati a un certo punto hanno dovuto mettersi in lista per un trapianto.

Per quanto ancora oggi sia una patologia difficile con la quale confrontarsi, sempre più donne e uomini decidono di diventare genitori. Primo aspetto da tenere in considerazione: se hai la fibrosi cistica e decidi di avere un figlio, non significa automaticamente che tuo figlio nascerà malato. La malattia è ereditaria, ma è recessiva: è necessario cioè che il bambino erediti entrambi i geni della fibrosi, uno da ciascun genitore. Paradossalmente però il problema vero e proprio non sono i figli di persone che sanno di essere malate, ma quelli dei portatori sani, degli individui cioè che hanno un gene della fibrosi cistica ma che non lo sanno, perché come si è detto essendo la malattia recessiva, si manifesta solo in individui che ereditano entrambi i geni della malattia.
È questa la ragione per cui la fibrosi cistica non è poi così rara: si stima che esista un portatore sano ogni 20 persone circa. La maggior parte di noi non sa se ha o meno il gene per la fibrosi, anche perché un’analisi genetica completa è ancora oggi molto costosa, intorno agli 800 euro. Difficile anche sapere se il nostro compagno è portatore sano del gene mutato.

Se una coppia di portatori sani ha un figlio, la probabilità che questo sia malato segue le leggi mendeliane: il 25% di possibilità avere un figlio con entrambi i geni della fibrosi cistica, cioè malato, il 50% di generare un portatore sano, cioè con un gene ereditato, e il rimanente 25% di probabilità che nostro figlio non erediti nessuno dei geni responsabili della malattia.

Ma facciamo un passo indietro, a circa nove mesi prima del parto. In altre parole, parliamo di Legge 40.
In generale la legge italiana non permette la fecondazione assistita con diagnosi pre-impianto, poiché questo tipo di tecnica viene assimilata a un processo eugenetico.
Se invece uno dei due futuri genitori è sano e l’altro malato, la legge consente questa tecnica diagnostica, ma sebbene le analisi siano effettuate prima che l’ovulo fecondato venga impiantato nell’utero della donna, solo dopo l’impianto i futuri genitori posso sapere se l’embrione che la donna ha appena accolto è malato oppure sano. Se per caso è malato, la legge consente di abortire entro 5 mesi.

Anche se abbiamo gli strumenti per individuare subito un embrione malato da uno sano prima ancora che venga impiantato nell’utero della donna, oggi l’unica via attuabile per ridurre l’impatto della malattia è quella di un test al portatore, cioè di uno screening su tutta la popolazione in grado di individuare le coppie di portatori sani prima che concepiscano. Al momento però, anche questa possibilità è però solo un miraggio. L’unica zona d’Italia dove si è cominciato a implementare questo sistema è Padova, dove il test al portatore ha permesso di abbassare l’incidenza della malattia da 1 malato su 2000 nati, a uno ogni 15 000 nati.

Quello che invece si può fare a livello nazionale da più di 20 anni, almeno sulla carta, è lo screening neonatale per sapere se un bambino è affetto da fibrosi cistica. Sulla carta però, perché in realtà ben 4 regioni su 20 non lo praticano, sebbene esista una legge che l’ha reso obbligatorio. Queste regioni sono l’Abruzzo, la Puglia, la Sardegna e il Molise, mentre il Friuli Venezia Giulia che lo prevedeva, ha deciso di smettere di farlo come routine ai neonati.

Nonostante tutto, la gravidanza per pazienti affette da questa malattia in molti casi non è semplice e ancora oggi diverse donne, saputo di essere incinte, scelgono di abortire. Durante il convegno romano organizzato dall’Osservatorio Malattie Rare a cui abbiamo fatto riferimento anche nella prima puntata del nostro speciale, i medici presenti in sala hanno dibattuto a lungo sull’argomento. Quello che è emerso è che nessuno oggi può dirimere con certezza legiferante se è un bene o un male per una malata di fibrosi cistica dare alla luce un figlio. La scelta dipende da molti fattori, primo fra tutti la gravità della malattia, che varia molto da persona a persona. Per molte donne il pancione potrebbe per esempio appesantire l’attività polmonare, se già fortemente compromessa. L’unica cosa che si può fare a livello medico è attrezzarsi in modo che la donna non sia sola, che sia supportata da una squadra di specialisti pronti ad affrontare qualsiasi difficoltà e a consigliarla. «Noi per esempio pratichiamo di prassi il parto cesareo a queste donne – racconta Vincenzo Carnovale, del centro adulti di Riferimento Regionale per la FC della Regione Campania – per evitare di affaticare i polmoni attraverso le spinte».

Non ci sono soltanto le donne a trovarsi nella condizione di soffrire di questa malattia e desiderare un figlio. La differenza è che la malattia negli uomini nel 98% dei casi provoca azospermia ostruttiva, che non significa però infertilità: l’uomo produce regolarmente gli spermatozoi, ma questi ultimi non riescono a spostarsi lungo i dotti deferenti a causa della densità dei fluidi, propria della fibrosi cistica. Per questa ragione è necessario ricorrere alla fecondazione assistita.

@CristinaDaRold

Leggi anche: Il DNA del padre? Lo usiamo di più

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Gabi Menashe, Flickr

Condividi su
Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.