GRAVIDANZA E DINTORNI

Diagnosi prenatale: il futuro dei test non invasivi

Per lo screening della sindrome di Down, il test del DNA fetale nel sangue materno è ormai il migliore. Con quali conseguenze?

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Lo aveva già suggerito una metanalisi pubblicata a marzo dal gruppo di ricerca di Kypros Nicolaides del King’s College Hospital di Londra, uno dei massimi guru mondiali di screening prenatale. A proposito, in ambito prenatale un test di screening non è diagnostico, non certifica la presenza o l’assenza di una malattia, ma valuta il rischio che il feto ne sia affetto. E dunque, mettendo insieme i dati di 37 studi pubblicati tra il 2011 e il 2015, Nicolaides e colleghi avevano concluso che la performance del test sul DNA fetale per lo screening della trisomia 21 (reponsabile della sindrome di Down) è eccellente, con una sensibilità (la capacità di individuare i casi positivi) del 99,2% e un tasso di falsi positivi dello 0,09%. “Molto meglio – hanno scritto gli autori – di quelli di altri metodi di screening”

Ora la conferma arriva da un ampio studio prospettico internazionale (ne abbiamo già parlato qui) che ha coinvolto quasi 16.000 donne che, tra le 10 e le 14 settimane di gravidanza, si sono sottoposte sia a un test di screening tradizionale per le principali anomalie cromosomiche fetali (trisomia 21, 13 e 18) sia a un test su DNA fetale nel sangue materno. L’obiettivo principale era valutare la performance del test sul DNA fetale – o meglio, di uno tra i tanti test in commercio, l’Harmony di Ariosa (oggi Roche) – nella popolazione generale e non solo in donne ad alto rischio. Una precisazione significativa, perché fino ad ora la maggior parte degli studi era stata condotta su campioni appunto ad alto rischio, in particolare su donne che avevano già ricevuto un esito positivo da un test di screening tradizionale.
Ebbene, i risultati, pubblicati di recente sul New England Journal of Medicine, sono stati eccellenti: sensibilità del 100% (cioè tutti i casi di trisomia 21 sono stati effettivamente individuati dal test) contro il 78,9% dello screening tradizionale, con tasso di falsi positivi dello 0,06% (contro il 5,4%). Ottimo anche il cosiddetto valore predittivo positivo, cioè la probabilità che, in caso di risultato positivo, il feto fosse davvero malato: 80,9% contro 3,4%.

Significa dunque che siamo pronti a sostituire il classico test combinato del primo trimestre con quello del DNA fetale su sangue materno? Pressioni commerciali a parte (potete immaginare quanto vasto sia il mercato), la risposta a questa domanda non è così semplice. Come ricorda un editoriale pubblicato sempre sul New England Journal of Medicine, la maggioranza delle società scientifiche e organizzazioni professionali consiglia di ricorrere a questo test solo in caso di gravidanze ad alto rischio. In ballo ci sono numerose questioni che hanno a che fare con aspetti economici (non secondari, specie in un’ottica di sanità pubblica), etiche, di accesso informato e così via. E molto dipende da quello che si chiede a un test di screening: se l’obiettivo è valutare il solo rischio della sindrome di Down, allora lo studio del DNA fetale nel sangue materno è effettivamente un’ottima soluzione.
Al momento, però, i metodi classici di screening sono più accurati per quanto riguarda altre anomalie cromosomiche, per esempio la trisomia 13 e la trisomia 18, come ricordano anche Nicolaides e colleghi nella loro metanalisi e alcuni ricercatori autori di una lettera indirizzata sempre al Nejm.

Anche un recente documento congiunto della società europea e di quella americana di genetica umana non giunge a indicazioni definitive, ma invita piuttosto a una seria riflessione per affrontare in modo responsabile le sfide poste dalle nuove frontiere dei cosiddetti NIPT, i test prenatali non invasivi. In particolare, si sottolinea la necessità di non abbandonare un accurato counseling genetico per chi decida di sottoporsi a questi test. Proprio il loro carattere non invasivo, infatti, potrebbe renderli facilmente esami di routine, prescritti magari in modo un po’ superficiale, senza che la donna e, in generale, la coppia, abbia modo di capire esattamente a che cosa sta andando incontro. Compreso il fatto che il test potrebbe svelare informazioni non previste su anomalie cromosomiche differenti rispetto a quelle cercate, nel feto ma anche nella mamma. In altre parole, la donna potrebbe a un certo punto trovarsi con l’informazione di avere lei stessa un’alterazione cromosomica, senza sapere bene che cosa questo significhi.

Su una cosa, comunque, sono tutti d’accordo: nonostante la grande accuratezza, anche nel caso di risultato positivo rispetto alla sindrome di Down, prima di prendere qualunque decisione sulla gravidanza bisogna confermare il dato con un vero test diagnostico, preferibilmente l’amniocentesi.

Credit Immagine: oliver_symens_de/Flickr

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance