CULTURA

Giacomo Bove, un esploratore dimenticato e il passaggio a Nord Est

Quella di Bove fu un'avventura audace. Dalla Norvegia fino a Capo Celyuskin, il punto che nessuna spedizione aveva mai superato prima.

Può un fazzoletto di terra sul lungomare di Napoli, incastonato tra il Maschio Angioino, la piazza del Plebiscito e il teatro San Carlo essere una prigione? Giacomo Bove non aveva dubbi: si trattava di una vera e propria gabbia, dove lui, uomo di collina innamoratosi perdutamente del mare fin da bambino, era tenuto lontano dalla navigazione e dai grandi viaggi per i quali si sentiva chiamato dal destino. Quel pezzo di terra oggi ospita i giardini di Molosiglio, ma nella seconda metà dell’Ottocento era la sede dell’Arsenale militare napoletano. Non c’è verso, in questa caserma a cui è stato assegnato dalla Marina Bove non si sentiva a proprio agio: non aveva scelto la marina per la carriera e la vita militare, ma perché con le navi si poteva andare lontano a esplorare luoghi sconosciuti per la maggior gloria di chi li scopriva e per la sua stessa patria.

La prima volta che vede il mare, è ancora bambino. È sceso a Genova con la famiglia dalle colline del Monferrato dove si coltiva la vite e si fa buon vino. Non appena lo vede, è un amore struggente e totale che nasce. Talvolta sarà venato di malinconia, ma non vacillerà mai, nemmeno quando smetterà la divisa per la vita civile: fonderà un’azienda di trasporto marittimo, “La Veloce”, per sostenere la famiglia e continuerà a occuparsi di quello specchio blu che unisce i continenti e i paesi.

Bove11

Nato il 23 aprile del 1852 a Maranzana, nell’astigiano, Giacomo Bove è di famiglia modesta e non ha i mezzi per farlo studiare. Ma tanto è forte e genuino quell’amore per il mare, che il padre Francesco e la madre Antonia si impegnano per riuscire a mandarlo all’Accademia Navale di Genova: per la durata della sua formazione, al posto della retta e delle spese, forniscono il proprio vino. Giacomo non delude e diventa guardiamarina a ventuno anni.

L’attrazione per la navigazione è tale che quasi non fa tempo a uscire dall’Accademia che subito parte con una spedizione per il Borneo a bordo della corvetta Governolo della marina italiana. È un viaggio faticoso che però conferma al giovane ufficiale che quella è la vita che ha sempre sognato, quella per la quale era fatto fin dalla nascita. Durante i quindici mesi di missione, Bove impara molto su come si conduce una nave in acque difficili come quelle del Sudest asiatico, ma soprattutto diventa bravo in idrografia, quella scienza fatta di rilievi e osservazioni delle correnti e dei fondali marini fondamentale per la navigazione. È talmente entusiasta che appena tornato in Italia riparte per il Giappone e l’estremo oriente.

Tutto lascia presagire una vita movimentata, avventurosa, che gli avrebbe dato l’occasione di portare gloria all’Italia da poco unita con le sue imprese di esplorazione. Ma c’è Napoli, con la sua reclusione e la vita routinaria di caserma, e tutto pare arrestarsi. Anzi, i sogni di esplorare il mondo gli sembrano arenati come una nave incagliata in una secca. Gli pare di essere di fronte a un ostacolo ingiusto che il destino gli ha voluto mettere tra sé e l’avventura: è un leone in gabbia. Meglio sarebbe partire per l’Africa e morire di malattia come è già capitato a tanti esploratori italiani, meglio lasciare la pelle cercando la strada per Timbuctu nell’opprimente caldo africano come fece Giovanni Miani che la noia mortale dell’Arsenale.

Certo, l’Italia degli anni Settanta dell’Ottocento ha ben altri problemi a cui pensare che non l’esplorazione dei mari esotici: c’è uno Stato unitario da costruire, un’amministrazione ancora tutta da fare, ci sono guerre contro l’Austria-Ungheria da combattere per prendere Venezia e il Veneto. Qua e là, però, grazie alla costituzione della Società Geografica Italiana e allo spirito di emulazione per le potenze europee si parla di trovare il proprio “posto al sole”. Tradotto: se vuoi essere un grande paese negli ultimi decenni dell’Ottocento, devi avere una politica coloniale, una spinta imperialista e il controllo di territori e traffici oltremare. Ma l’Italia tentenna, non ha il passo sicuro che hanno nell’impresa coloniale la Francia o l’Inghilterra. Non ha nemmeno la spietata risolutezza del Belgio o l’organizzazione pratica della Germania. E di sicuro non ha i denari per imprese incerte, che potrebbero dare tanta gloria, ma il cui ritorno immediato è vago. Cercherà di affacciarsi alla spartizione africana, ma lo farà più tardi, in modo raffazzonato e senza cavarne poi moltissimo.

Per fortuna di Bove, però, ci si può appoggiare alle spedizioni altrui, offrendosi come ufficiali di bordo e mettendosi al servizio di vere e proprie imprese internazionali. Certo, la gloria ricade sempre su chi pensa e poi comanda l’impresa, ma è pur sempre un’opportunità. Così Giacomo Bove, pur di lasciare l’arsenale napoletano fa domanda a tutte le imprese che si stanno organizzando negli anni Settanta. Dopo tante delusioni, ecco finalmente l’occasione: sarà l’ufficiale italiano del tentativo di aprire il Passaggio a Nord Est di Adolf Nordenskiöld finanziato dalla corona svedese.

La strada è tutt’altro che vergine, con tentativi che si registrano fin dal XVI secolo, sia dal lato europeo che dal Mare di Bering. Alcune missioni si era spinte anche molto avanti, ma ai tempi di Bove la navigazione tra i due oceani era ancora un’impresa che aveva contato solamente fallimenti e sulle acque ghiacciate che cingono la Siberia da Nord si disegnava un cimitero di buone intenzioni. Navigare dalla Norvegia allo Stretto di Bering significava aprire una nuova via commerciale che poteva risparmiare la via più lunga circumnavigando l’Africa o pagando pedaggio agli inglesi per il nuovo Canale di Suez. Ma significava anche poter mettere in contatto con una rotta commerciale le foci dei fiumi siberiani che si addentrano verso sud in enormi territori, potenzialmente ricchi di risorse e popolazioni con le quali stringere accordi commerciali. Un immenso scrigno che senza una via navigabile a nord era destinato a rimanere isolato dal resto del mondo.

nordost02d
La rotta della Vega – Immagine: Università di Tromso

Negli anni precedenti, Nordenskiöld, che era figlio di un insigne mineralogista finlandese ma aveva scelto la corona svedese per divergenze politiche con la madrepatria, aveva maturato una vastissima esperienza di navigazione tra gli iceberg del Nord. Aveva esplorato il Mar di Barents e il Mar di Kara, aveva potuto osservare in prima persona il comportamento dei ghiacci e il loro scioglimento. Era persuaso che tutti i tentativi precedenti fossero falliti perché non si era provato nel periodo più adatto, che per lui corrispondeva ai mesi tra agosto e novembre. Così, con Giacomo Bove a bordo, la piccola flotta parte da Tromsø, in Norvegia, il 18 luglio del 1878 e nel giro di poche settimane è in vista del capo Celyuskin, il punto che nessuna spedizione aveva mai superato e il punto di non ritorno per la missione.

A bordo dell’ammiraglia Vega, una nave civile rinforzata in metallo a prua e dotata di tutti gli strumenti scientifici più moderni dell’epoca, Giacomo Bove passa le lunghe giornate di navigazione tra i ghiacci immersi nella nebbia sovrintendendo alle rilevazioni idrografiche. “Esse – scrive nel proprio diario – consistono nello scandagliare esattamente il fondo, mediante uno scandaglio comune o Brooke; dragare per avere saggi di fondo e campioni della fauna di questi mari; gettare le larghe reti alla superficie del mare per raccogliere alghe e altre sostanze vegetali in sospensione; misurare temperatura, peso specifico, quantità di sale contenuto nell’acqua a diverse profondità” e altro ancora.

Sono compiti che svolge diligentemente e con efficienza. Nel tempo libero studia lo svedese e cerca di impratichirsi nelle altre lingue, indispensabili per comunicare con il resto della ciurma internazionale. In realtà non riuscirà mai a legare con nessuno e, chissà, forse nel gelo del nord la malinconia profonda che lo prenderà negli anni futuri comincia a farsi largo nel suo animo.

spedizione-vega32
La Vega tra i ghiacci – Immagine: Archivio fotografico Associazione culturale Giacomo Bove & Maranzana

Il doppiaggio del capo offre ai naturalisti di bordo l’occasione di scendere sull’isola Tamyr per raccogliere esemplari di fauna e flora. Per Bove è terribilmente affascinante l’incontro con un orso bianco, ma sono preziosi anche i canti dello zigolo delle nevi e, per motivi più pratici, anche gli incontri, fucile alla mano, con le renne. Tutte le previsioni sui ghiacci si sono rivelate corrette e la navigazione è risultata quasi priva di scossoni per oltre un mese. Ma quando il 18 agosto 1878 la Vega doppia il Capo Celyuskin inoltrandosi in quello che è stato chiamato Mare di Nordenskiöld, quando cioè l’impresa sembra possibile, nessuno, e nemmeno Giacomo Bove, sospetta che di lunghe giornate vuote in cui la malinconia si potesse insinuare ce ne sarebbero state così tante.

Non appena al di là del capo, si fanno sentire i presentimenti di problemi in vista. I ghiacci che hanno finora lasciato libera di navigare la Vega ora cominciano a diventare più insidiosi, i passaggi liberi più stretti e difficili da navigare, creando qualche problema anche al lavoro di idrogafo di Bove. In questo passaggio, assieme ai suoi colleghi, corregge alcuni errori cartografici delle spedizioni precedenti: la baia che si affaccia sul Mare di Nordenskiöld va collocata una quarantina di miglia più a nord. Si avvicinano alla foce del fiume Lena, dove sperano di trovare giovamento dalle acque più calde che si gettano nel mare, ma così non è. Bove scrive che “questo da a pensare che all’Est della Lena non troveremo quella strada aperta che crediamo; sarà forse là l’osso duro”. Capisce, cioè, che la parte più difficile della navigazione e della spedizione sta arrivando. Ma non sa quanto. All’altezza della Lena, l’omonima nave che seguiva la Vega come membro della flotta scientifica la risale, staccandosi dall’ammiraglia. Adesso la Vega rimane sola, e da sola dovrà cavarsela fino all’arrivo in Giappone.

Il 29 settembre la lotta con i ghiacci è persa. A nulla sono servite le mine, il lavoro di piccone dei marinai di fronte allo sperone della Vega, i motori lanciati a tutta forza contro il pack che si stringeva attorno allo scafo. Nordenskiöld capisce che non c’è altra soluzione che fermarsi a svernare a 67° 7’ di latitudine nord e a 173° 31’ di longitudine est. Si infrange il sogno di compiere l’impresa in quello stesso anno, ma la delusione non può rubare tempo: ci sono molti lavori da fare a bordo e a terra. Nordenskiöld fa costruire con blocchi di ghiaccio un riparo poco distante dalla nave dove gli scienziati di bordo si alterneranno da novembre per le osservazioni meteorologiche e magnetiche. Quello che inizia è un periodo duro, battuto dal freddo pungente, dalla difficoltà di muoversi in un territorio gelato per procurarsi cibo (le vettovaglie di bordo andavano razionate diligentemente) e legna, segnato da un sentimento malinconico che oscilla tra bellezza e disperazione. Bove scrive pagine quasi liriche: “La notte era splendida: la Luna, sorgendo dai monti del Capo Nord, illuminava i vasti campi di ghiaccio; le guglie scintillavano come cime di campanili; un leggero vento portava ai nostri orecchi le monotone canzoni dei selvaggi”.

I selvaggi sono il popolo dei Ciukci, una tribù seminomade che abita la zona della Siberia dove la spedizione sverna. Rimangono sulla costa finché il mare permette di pescare e fino a che non terminano le scorte, poi si spostano verso sud seppellendo sotto la neve e il ghiaccio le proprie cose che ritroveranno con il disgelo dell’anno seguente. Il rapporto con il popolo di pescatori è un grande passatempo per tutto l’equipaggio e Bove sembra quasi approfittare della loro presenza per acuire il suo spirito di osservazione, diremmo oggi, antropologico ed etnografico. Ci sono aspetti della loro cultura che lo colpiscono, per esempio il fatto che non dimostrino interesse per rubare le provviste o gli utensili della spedizione: piuttosto chiedono di barattarli con qualcosa. Fa molto ridere lui e l’equipaggio un certo capo della tribù che, entrato sulla nave, si inchina di fronte ai ritratti della famiglia reale scambiandone i membri per dei santi.

spedizione-vega10
Foto etnografica, spedizione Vega – Immagine: Archivio fotografico Associazione Culturale Giacomo Bove & Maranzana

Ma quello che più di tutto colpisce l’animo di Giacomo Bove sono le aurore boreali, uno spettacolo che vede molte volte, sia dalla nave che durante le lunghe osservazioni dal riparo di ghiaccio appositamente costruito. Contribuisce come il resto degli ufficiali alla registrazione dei segnali magnetici in presenza della aurore. In questo periodo non si comprendeva ancora del tutto il fenomeno che le provocava e Nordenskiöld capisce che quelle osservazioni saranno preziose. Per questo, di fatto, vieta a Bove e a chiunque altro di pubblicare alcunché al riguardo al loro ritorno. Tutto il lustro deve andare al comandante della spedizione e alla corona svedese che lo aveva finanziato. Già intriso di sentimenti patriottici, Bove comincia a pensare che l’unico modo per trovare il proprio posto, e farlo trovare all’Italia nella corsa ai territori estremi, sia una spedizione tutta italiana con lui al comando.

La vita scorre monotona. L’unico evento è la partenza dei Ciukci, che vanno a svernare a sud. Per il resto è routine, nella quale però i rapporti con il resto dell’equipaggio non si approfondiscono mai davvero: tutto il tempo è una lotta di nervi con sé stessi. Finalmente, il disgelo comincia a manifestarsi, anticipato dal rumore del ghiaccio che si muove dopo mesi di immobilità, e il 20 luglio del 1879, dopo 294 giorni di sosta, la Vega riprende la via del Giappone. Il resto del viaggio è semplice e senza imprevisti. Il 2 settembre la spedizione è a Yokohama, in Giappone: il passaggio a Nord Est è stato aperto per la prima volta nella storia. Bove scende dalla nave il 4 febbraio del 1880 a Napoli passando da Suez, mentre la Vega prosegue per Stoccolma. Alla fine, l’itinerario completo della spedizione sarà di 22189 miglia, cioè 44094 chilometri.

In Italia Giacomo Bove è trattato come un eroe, in un periodo in cui esploratori eroi ce ne sono molti. Passa di città in città tenendo conferenze e raccontando la sua esperienza tra i ghiacci. Non manca di rendere conto della spedizione alla Società Geografica Italiana e a Cristoforo Negri, che ne era il presidente fino al 1872 ed è stato un grande sostenitore della aspirazioni di Bove. Anzi, insieme progettano di realizzare una grande spedizione italiana tra i ghiacci dell’Antartide. Ma i soldi non ci sono e non si trovano: l’Italia continua la sua andatura a vista nell’impresa di esplorazione. E poi, ci sono altri continenti da sondare che sembrano più interessanti per gli scopi economici e politici di un paese europeo.

Sempre con l’Antartide nel cuore, ma senza trovare i finanziamenti necessari, Bove inizia una serie di esplorazioni in Sudamerica. Il suo è uno spirito irrequieto, che non accenna a placarsi nemmeno dopo che nel 1881 sposa Luisa Bruzzone, vedova e che gli porta in dote una figlia di pochi mesi. Nel 1882 è a comando di una spedizione che tenta la circumnavigazione del continente sudamericano. Nonostante un naufragio dalle parti dello Stretto di Magellano, la missione è un successo scientifico per le osservazioni e le conseguenti pubblicazioni dello zoologo Decio Vinciguerra, del botanico Spegazzini e del geologo Domenico Lovisato. Nel 1883 risale i fiumi Paranà e Iguazù dalla baia di Buenos Aires per valutare la possibilità di colonizzazione dei territori che attraversano. L’anno seguente guida la goletta Cilote nell’ultima missione sudamericana, sempre esplorando i mari che cingono la Terra del Fuoco. Ma sono tutte missioni in territori già noti, importanti perché aiutano a comprendere meglio territorio comunque poco battuti, ma che non scaldano l’animo dell’esploratore Giacomo Bove.

Bove tra i patagoni - Immagine: viaggipolari.it
Bove tra i patagoni – Immagine: viaggipolari.it

Sempre nel 1884, alla cosiddetta Conferenza di Berlino, le potenze europee si spartiscono i territori tra i fiumi Congo e Niger in Africa. Leopoldo II del Belgio diventa il re del nuovo stato dal nome di Stato Libero del Congo. In realtà si tratta di una delle esperienze coloniali più sanguinose della storia dell’umanità. C’è spazio anche per l’Italia che si arroga il diritto di una spedizione per risalire il fiume Congo, dove ipotizza di stabilire delle colonie per lo sfruttamento delle risorse e, si diceva così, “incivilire” le popolazioni locali.

La missione, realizzata nel 1885, è affidata a Giacomo Bove, oramai un esperto esploratore e un ufficiale dal giudizio autorevole, e a una coppia di ufficiali dell’esercito. La missione non è particolarmente lunga, tra la partenza dall’Inghilterra a dicembre e il ritorno in Italia nell’autunno dell’anno successivo. La spedizione esplora il basso Congo e risale fino a Leopoldville, la capitale del neonato Stato africano. Bove non crede che sia un territorio adatto a un insediamento italiano: troppo difficile il clima, troppo pericoloso dal punto di vista delle malattie tropicali. La sua relazione per il governo italiano è un caldo consiglio a lasciare la mano.

La colonizzazione italiana del Congo non avverrà mai, ma quando Bove esprime il suo giudizio – che era poi quello che gli avevano chiesto di fare – viene visto come un pessimista in un momento in cui l’Italia, sempre a modo suo, cerca di trovare la propria via all’Africa. Sarà altrove, in modalità diverse da quelle immaginate, ma Bove viene messo un po’ in disparte: tante grazie, ma non c’è spazio per il disfattismo. Forse questo è il colpo decisivo che rompe l’argine dell’amarezza di Bove, di quella malinconia che lui sa che si sta trasformando in “nevrosi”. O forse il fisico è oramai debilitato dalla dura vita per i mari di quattro continenti, chissà se anche segnato da una malattia tropicale contratta in Congo o in Sudamerica. Quello che si sa per certo è che nel 1887, durante l’estate, è in una stazione climatica del Sud Tirolo a curarsi, ma all’inizio di agosto scende a Verona, dove il 9 mattina, con un revolver comperato alla bisogna, si toglie la vita a 35 anni.

L’Antartide, la terra da esplorare che aveva sognato fin dal suo viaggio sulla Vega, sarà violato solamente alla fine del secolo, ma Roald Amundsen e Robert Falcon Scott conquisteranno il Polo Sud solamente tra il 1911 e il 1912. Anche la missione più importante della sua vita, quella che aprì il passaggio a Nord Est, darà frutti solamente nel XX secolo, con la creazione di vere e proprie rotte commerciali tra i due oceani. Bove ha deciso di non voler vedere tutto questo, forse troppo fragile, forse fuori sincrono con il proprio tempo, forse semplicemente sfortunato. Sicuramente messo da parte e presto dimenticato.


Leggi anche: Giovanni Miani e le sorgenti del Nilo

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Marco Boscolo
Science writer, datajournalist, music lover e divoratore di libri e fumetti datajournalism.it