GRAVIDANZA E DINTORNI

Di aborto, evoluzione (e nuovi test?)

Una comune variante genetica sembra associata al rischio di alterazioni nel numero dei cromosomi dell'embrione, a loro volta responsabili di molti casi di aborto precoce

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GRAVIDANZA E DINTORNI – Non è sempre facile rimanere incinte e portare avanti una gravidanza. Spesso ci vuole qualche mese prima di ottenere un test positivo ed è piuttosto alto il rischio di perdere il bambino nelle prime settimane. Sembra che solo il 30% dei concepimenti dia origine a una gravidanza che arriva a termine, mentre nel 70% dei casi si verifica un aborto precoce o precocissimo, addirittura prima che la donna faccia in tempo a capire di essere incinta.

Spesso questi aborti dipendono dal fatto che gli embrioni hanno un numero alterato di cromosomi: non 46 come dovrebbe essere (23 dalla mamma e 23 dal papà), ma uno o qualcuno di più o di meno. È quello che succede nella sindrome di Down (tre copie del cromosoma 21), solo che in genere il fenomeno è incompatibile con la vita. Tecnicamente si parla di aneuploidia, una condizione che può avere diverse cause: ebbene, secondo uno studio pubblicato su Science, in ballo potrebbe esserci anche una particolare variante nella sequenza del DNA della mamma. Variante che, per altri versi, sembra essere stata premiata dalla selezione naturale, dando luogo a un bel paradosso .

L’aneuplodia può dipendere da errori che si verificano nei meccanismi genetici che portano alla formazione delle cellule uovo e in questo caso risulta associata all’età materna: precisamente, la frequenza di errori aumenta con l’età. In alternativa, può dipendere da errori che si verificano durante le prime divisioni cellulari dopo la fecondazione e che sono invece indipendenti dall’età.

Per saperne di più, i ricercatori del gruppo di Dmitri Petrov, dell’Università di Stanford, hanno analizzato i dati relativi allo screening genomico di embrioni prodotti con tecniche di fecondazione in vitro nell’ambito di procedure di PMA, procreazione medicalmente assistita. In collaborazione con il personale di Natera – società americana specializzata in diagnostica prenatale – hanno dato un’occhiata generale al  genoma di questi embrioni, concentrandosi sui cosiddetti SNPs (si legge snips), variazioni nel tipo di “lettera” del DNA (A, T, G o C) che può essere presente in determinate posizioni sui vari cromosomi.

Petrov e colleghi hanno così scoperto che la presenza di un numero alterato di cromosomi negli embrioni è associata a una particolare variante in una certa posizione del cromosoma 4: l’aneuploidia è più frequente se in quella posizione ci sono due A, meno frequente se ci sono due G e intermedia per una A e una G.

Non solo: i ricercatori hanno anche osservato che le donne con la variante più “rischiosa” (AA) erano anche quelle per le quali era disponibile il minor numero di embrioni, suggerendo che gli embrioni di queste donne abbiano minori probabilità di sopravvivenza proprio a causa dell’aneuploidia.

La cosa interessante è che questa variante è molto vicino a un gene (PLK4) che codifica per una proteina coinvolta nella suddivisione dei cromosomi tra le cellule figlie durante la divisione cellulare. L’ipotesi – ancora tutta da dimostrare – è che la variante possa interferire con la funzione di questo gene.

Quello che è certo è che la variante “rischiosa” è molto diffusa e si trova nel 20-40% delle persone di diverse popolazioni nel mondo. Allo stesso tempo, però, sembra assente dal genoma di altri ominidi estinti, come l’uomo di Neanderhal e l’uomo di Denisova: un fatto che porta Petrov e colleghi a concludere che sia stata premiata dalla selezione naturale. Ma come è possibile che qualcosa che sembra avere un effetto negativo sulla fecondità abbia avuto tanto successo, evolutivamente parlando? I ricercatori avanzano un’ipotesi suggestiva.

L’idea è che la riduzione della probabilità di successo di una gravidanza possa avere un ruolo nella formazione di coppie stabili e nell’investimento parentale da parte dei papà. In altre parole, siccome il maschio non solo non può sapere quando la femmina è fertile (perché nella nostra specie mancano segnali evidenti) ma non può neppure essere certo che un rapporto sessuale porti a una gravidanza felice, gli conviene stare accanto alla femmina per aumentare le sue chance riproduttive, con ricadute positive in termini di accudimento della prole. Per quanto negativa per i singoli, questa situazione – ritengono gli autori – potrebbe essere vantaggiosa per la popolazione nel complesso. Più banalmente, però, potrebbe darsi che la variante sia a sua volta associata a un altro tratto genetico con effetti positivi che non abbiamo ancora identificato.

Al di là delle spiegazioni evolutive, queste informazioni potrebbero aiutare a saperne di più sulle cause che portano all’aborto, mentre cominciano già a farsi strada possibili applicazioni commerciali, come un test proprio di Natera per l’analisi genetica veloce su materiale abortivo.

Leggi anche: Diagnosi prenatale: il futuro dei test non invasivi

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Crediti immagine: Hey Paul Studios, Flickr

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance