LA VOCE DEL MASTER

Brain Training: funziona davvero?

Ha un fatturato mondiale di 1,3 miliardi di dollari, ma l'industria del benessere cerebrale potrebbe non portare reali miglioramenti a lungo termine

LA VOCE DEL MASTER – Allenare il cervello come un qualsiasi muscolo del nostro corpo, a cui dedichiamo 2 o 3 sessioni di palestra alla settimana, quando va bene. Una routine che richiede pochi minuti nella giornata ma che promette di migliorare le nostre capacità, quali la memoria, l’attenzione, il ragionamento con semplici app sul nostro smartphone. In questo consiste il brain training, una delle ultime tendenze in fatto di potenziamento delle nostre capacità cerebrali. Un mercato che negli ultimi tempi è in continua crescita.

Secondo un’indagine condotta dalla SharpBrains, l’azienda che ha redatto un report sullo stato dell’industria del benessere cerebrale, il fatturato mondiale si aggira intorno a 1,3 miliardi di dollari. E la stima è che raggiungerà i 6 miliardi nel 2020. Ma ciò che viene promesso da queste aziende, del calibro della Nintendo, Lumosity o Cogmed, è reale?

Gli studi, che hanno messo alla prova questi giochi di allenamento cerebrale, sono molti e spesso contraddittori: chi afferma che i miglioramenti cognitivi siano evidenti, e dall’altra parte, chi nega che i risultati abbiano alcuna attendibilità. Per fare un po’ di chiarezza nel 2013 è stata pubblicata su PubMed una meta-analisi, uno studio cioè in cui si analizzano più ricerche insieme. Gli autori hanno comparato 23 studi ponendo il fuoco su programmi di allenamento riguardanti la memoria di lavoro, punto forte della azienda Cogmed. E la conclusione cui sono arrivati è che questi giochi sembrino produrre sì benefici a breve termine, nel senso che la loro efficacia si limita ad allenare la memoria ai fini del gioco stesso. Ma la loro capacità di influire sul miglioramento delle funzioni cognitive è messa in dubbio e se il guadagno non si applica a diversi ambiti della vita quotidiana rimane sostanzialmente confinato al puro intrattenimento.

“Molti brain games” riporta Alessandro Padovani, direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Brescia “stimolano e misurano la nostra abilità di multitasking nel tempo. Viviamo in un ambiente in cui fare più cose insieme ci è già indispensabile. Non è chiaro quindi se questo tipo di attività possa, in qualche modo, determinare un netto miglioramento.”

Se per i genitori che fanno giocare i propri figli la speranza è quella di crescere un nuovo Einstein, la speranza di una popolazione sempre più anziana è quella, tramite queste app, di riuscire a prevenire malattie neurodegenerative: demenze quali l’Alzheimer o il Parkinson. La lettera aperta dei 73 psicologi, scienziati cognitivi e neuroscienziati promossa dallo Stanford Center on Longevity e il Max Planck Institute for Human Development dello scorso ottobre ci ammonisce: “A giudizio dei firmatari, affermazioni esagerate e fuorvianti (delle aziende di brain training) sfruttano l’ansia degli anziani circa l’imminente declino cognitivo.”

“Un altro aspetto da non sottovalutare è quello della dipendenza,” afferma Alessandro Padovani “c’è il rischio che questi giochi stimolino così tanto l’utente da interferire con le sue più semplici attività quotidiane”. E se fino a poco tempo fa il passatempo preferito era La Settimana Enigmistica, chi si diverte adesso con queste app, senza pretesa alcuna, può continuare a usarle se lo aiuta a mantenersi attivo. “L’importante,” consiglia Padovani, “ora come allora, è non limitare la stimolazione cognitiva a fare cruciverba. Andiamo per musei, svolgiamo esercizio fisico e curiamo le relazioni sociali”.

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Mandeka Papini
Una laurea in Fisica a Firenze. Ho iniziato con la didattica informale al "Il Giardino di Archimede" per avventurarmi, tramite il Master in Comunicazione della Scienza della Sissa, nel mondo dell'editoria scolastica e del giornalismo scientifico, scoprendo una passione smodata per i prodotti multimediali.