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Baby talk: lo fanno anche i papà?

Il modo in cui i genitori parlano con i bimbi serve anche a plasmare le loro capacità di apprendimento del linguaggio. Ed è diverso tra madri e padri

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SCOPERTE – Quando i genitori parlano con i loro bimbi piccoli, spesso lo fanno in modo decisamente diverso da quello con il quale si rivolgono agli adulti: voci acute, toni alti, parlano quello che in inglese viene chiamato il “motherese” o baby talk, il madrese insomma. Chiamato così perché, dalle osservazioni sul rapporto genitori-figli condotte finora, parlare in questo modo sembrava prerogativa delle madri (le figure genitoriali più studiate, basandosi su un’idea sempre meno attuale di famiglia in cui è la mamma a occuparsi di crescere i bimbi). Ma lo è davvero? E che effetto ha il mammese sui bambini, in particolare sulle loro capacità di imparare a esprimersi?

Mentre i ruoli parentali cambiano (mentre i consigli sulla genitorialità cercano di dare una mano) e il coinvolgimento del padre nella crescita dei figli è sempre maggiore, i ricercatori volevano rispondere anche a un’altra domanda: anche i papà cambiano modo di parlare quando si rivolgono ai propri bambini? Pare di no, hanno spiegato gli scienziati del team della Washington State University al 169esimo meeting della Acoustical Society of America. Dopo aver osservato a lungo mamme e papà.

Ai genitori e ai bimbi (tutti in età da asilo) sono state attaccati dei dispositivi per registrare le interazioni sociali durante la giornata. Grazie a un software per il riconoscimento vocale i ricercatori hanno separato le varie registrazioni in modo da sapere chi parlava a chi in ognuna di esse, e in quali circostanze. Alla fine hanno confrontato il modo in cui papà e mamme parlavano con i figli con quello in cui si rivolgevano ai loro coetanei e ad altre persone adulte.

Lo studio ha confermato quanto avevano mostrato gli studi precedenti: sono le mamme a usare di più il madrese, mentre i padri parlano con i figli più o meno come fanno con persone della loro età. Se il madrese rappresenta un “linguaggio” adatto a instaurare un legame, in quanto particolarmente attraente per i bambini (cattura l’attenzione più facilmente nel suo essere esagerato), è forse sbagliato il fatto che i padri non lo utilizzino?

“Non lo è per niente, non è una mancanza paterna”, spiega Mark VanDam, leader dello studio. “Secondo noi anche i padri fanno qualcosa che servirà ai loro figli per l’apprendimento, ma in modo diverso. I due genitori svolgono ruoli complementari nel plasmare la capacità dei bambini di imparare il linguaggio”. È quella che i ricercatori chiamano la bridge hypothesis: parlando ai bimbi come fossero adulti, i padri si comportano come dei ponti verso il mondo esterno, aiutandoli a gestire un modo di parlare poco familiare.

Per di più lo scarso uso del madrese da parte dei padri non significa che il linguaggio che utilizzano con i bambini resti inalterato: spesso usano un vocabolario diverso, con parole più semplici, oppure cambiano il volume della voce e la durata delle frasi. Questo studio, precisano gli autori, è una piccola parte di un’iniziativa molto ampia della Washington State: l’obiettivo è studiare il linguaggio e la comunicazione in tutti i tipi di famiglie, ad esempio in quelle in cui un genitore cresce i figli da solo, o nelle coppie omosessuali. In seguito, concludono gli autori della ricerca, un altro aspetto che verrà indagato sarà l’apprendimento del linguaggio (mediato dai genitori) e la capacità di esprimersi per quei bambini che soffrono di problemi di udito.

@Eleonoraseeing

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Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Karen Sheets De Gracia, Flickr

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".