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Addio Serengeti: l’Africa potrebbe perderlo in pochi decenni

Un progetto europeo prende il simbolo africano come caso studio. I ricercatori di 13 centri scientifici lavoreranno insieme per cercare il cambiamento

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APPROFONDIMENTO – Con i suoi 15.000 chilometri quadrati di meraviglia, il Parco nazionale del Serengeti, patrimonio dell’umanità UNESCO, è tra le più importanti riserve naturali africane. Ed è un simbolo noto in tutto il mondo per la biodiversità e famoso specialmente per la massiva migrazione che, ogni anno, coinvolge qualcosa come un milione e mezzo di gnu insieme a migliaia di zebre (presenti in abbondanza sul territorio insieme ad antilopi, elefanti e gazzelle). Il parco si trova nella parte settentrionale della Tanzania e si estende fino al Kenya attraverso la foresta Mau, la più grande foresta montana vergine dell’intero continente africano. Serengeti, in lingua Masai, significa “pianure sconfinate”.

Eppure questo patrimonio naturale è tutto fuorché al sicuro, al momento, e men che meno sconfinato. Tra il disboscamento selvaggio e l’attitudine umana a sfruttare gli ambienti come fossero pozzi senza un fondo, il parco è in serio pericolo e con esso il complesso ecosistema che “beve” dal fiume Mara (da cui il limitrofo Parco nazionale di Masai Mara). Per non parlare del grave problema del bracconaggio: per limitarsi a parlare d’avorio, pensate che ogni 15 minuti un elefante viene ucciso per le sue zanne. Fanno 96 elefanti ogni 24 ore. Intanto ogni sette ore e mezzo perdiamo un rinoceronte, mentre molti dei suoi simili, per essere strappati a questa indegna sorte, vengono microchippati nel corno e trasportati in volo verso in aree più sicure o resi meno attraenti per i bracconieri. E immagini come quella di Sudan, ultimo maschio di rinoceronte bianco settentrionale (Ceratotherium simum cottoni) dicono più di mille parole.

La regione Serengeti-Mara, che affronta tutte queste difficoltà, è fondamentale per esseri umani e animali proprio per le risorse che fornisce: acqua, cibo per tutti, legno da usare come combustibile e per costruire, terreni da coltivare, da usare per il pascolo. Ma, come per il resto del nostro pianeta, di infinito non c’è nulla. E il supermercato a un certo punto chiude. Così, con la consapevolezza che qualcosa va fatto e va fatto ora, è nato il progetto scientifico “Linking biodiversity, ecosystem functions and services in the Serengeti-Mara region, East Africa”, finanziato dall’Unione Europea e guidato dalla Norvegia con la NTNU, la Norwegian University of Science and Technology. I ricercatori coinvolti provengono da 13 diversi centri scientifici tra Kenya, Tanzania, Danimarca, Norvegia, Germania, Scozia e Paesi Bassi.

“Il Serengeti è un’immagine iconica dell’Africa, da molti punti di vista. Per questo lo useremo come caso studio nel nostro progetto di ricerca”, spiega Eivin Røskaft,  professore di biologia alla NTNU e a capo dell’interno progetto europeo. “Tutto ciò che raccogliamo dalla natura non è altro che un ‘servizio’ che l’ecosistema ci regala. Risorse che vanno a poco a poco deteriorandosi, e quello che vediamo nel Serengeti è che la pressione sull’ecosistema è tale da non rendere più sostenibile la situazione. Nel peggiore degli scenari, potremmo perdere il parco nel giro di pochi decenni”, commenta Røskaft. Come punto di partenza, i ricercatori hanno isolato i tre aspetti più preoccupanti che minacciano l’area.

Cambiamento climatico – Il clima è diventato, negli ultimi anni, sempre più caldo. La stagione secca dura più a lungo, quella umida arriva in ritardo e le piogge -quando finalmente toccano l’area- sono decisamente più intense di un tempo, causando dilavamento ed erosione del suolo. Quello del riscaldamento globale è un cambiamento che, comodamente seduti a casa, viviamo con lo spirito del “non ci sono più le mezze stagioni”. Ma tocca la comunità (scientifica e non) su tutto il globo e, dove gli effetti nella vita di tutti i giorni già si sentono, si sentono forte. Ne risulta una sfida enorme per la vegetazione, per gli animali e per tutte le persone che vivono nell’area e che da essa, dalla sua ricchezza, dipendono da sempre.

Crescita incontrollata della popolazione – Nel 1961 in Tanzania c’erano otto milioni di abitanti. Oggi? I milioni sono diventati 50, destinati a raddoppiare nel prossimo ventennio. Insostenibile, come lo è la situazione sul resto del pianeta, perlomeno se non troveremo rapide soluzioni per rendere la nostra presenza qui più tollerabile. Intanto più persone significa più bocche da sfamare, maggiore necessità di risorse. Bisogni che si sono sempre più tradotti in caccia incontrollata (ai danni della maggior parte degli erbivori) e bracconaggio, oltre alla gestione dell’allevamento che -con i grandi numeri richiesti- preme in modo troppo intenso sui pascoli naturali.

Più bocche da sfamare, più cibo, più fuochi all’aperto, continuano gli scienziati nella loro analisi. Più fuochi richiedono più legna e intanto la foresta Mau viene giù, albero dopo albero, mentre ci spingiamo sempre più al suo interno per prendere tutto ciò che ancora si può. Intanto anche le infrastrutture fanno la loro parte: mentre le popolazioni sul territorio hanno ottenuto un sempre miglior accesso all’elettricità (anche se dalla luce come bene comune siamo ben lontani), si va costruendo un sistema di strade. Strade che interromperanno le rotte di migrazione di gnu e zebre in maniera netta. È così grave? Sì. E i norvegesi a capo del progetto lo sanno bene, visto che da loro è sufficiente un piccolo passaggio poco trafficato per far fermare centinaia di renne impegnate nella migrazione stagionale.

Più strade più AIDS – Se da un lato la rete di infrastrutture sarebbe un miglioramento verso il benessere (basti pensare al trasporto di medicinali), dall’altro a viaggiare meglio saranno anche le malattie. Gli scienziati stanno mappando la prevalenza di alcune malattie, tenendo in considerazione che -una volta costruite le strade- cambieranno le abitudini dei grandi e di conseguenza dei piccoli animali. Comprese le zanzare che portano la malaria, le mosche tsetse che portano la malattia del sonno. Non ultima per importanza, il timore del gruppo di esperti è che migliori collegamenti di questo tipo portino anche a una maggior diffusione dell’AIDS sul territorio.

Qual è la chiave del progetto, vista la quantità (quelli sopra sono tre di infiniti punti d’interesse) di aspetti da affrontare? Se lo chiedete a Røskaft, lui dirà che “la cosa più importante è migliorare l’expertise delle persone direttamente in Tanzania. Il mio obiettivo principale, che è anche quello che mi motiva, è formare professionisti competenti tra gli abitanti. Vedere le persone acquistare dimestichezza con il lavoro che fanno, e capire nel frattempo come questo possa cambiare le cose, è una ricompensa per noi”. Nel frattempo, per portare avanti il progetto, i ricercatori contano sull’appoggio di grandi realtà come il World Wildlife Fund (WWF) e l’International Union for the Conservation of Nature (IUCN), che hanno una grande influenza sulla gestione di aree importanti come il Serengeti. Molti importanti stakeholder si sono già mossi, pare, per spingere a una più profonda discussione sulla costruzione delle infrastrutture.

@Eleonoraseeing

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Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   Crediti immagine: Pubblico dominio, Pixabay

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".