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Un paleontologo nel parco dei dinosauri

I dinosauri del 2015 sono uguali a quelli del 1993: ragioniamo un po' su come avrebbero potuto essere con un'occhiata a 20 anni di scoperte

logoSPECIALE GIUGNO – Quando uscì il primo Jurassic Park nel 1993, ebbe il merito non solo di riempire i cinema e conquistarci per sempre, ma di portare tra noi la passione per la paleontologia. Da quel fantastico artiglio di velociraptor che si trovava in omaggio nelle scatole di cereali fino al nuovo entusiasmo dei bimbi nei musei di storia naturale, al primo JP e un pochettino anche ai sequel dobbiamo davvero molto. C’era tutto: novità, avventura, una storia salda, la grande emozione come quella del primo incontro con un brachiosauro, mentre la paleobotanica Ellie Sattler già era in fibrillazione fregandosi tra le mani una veriforman, pianta estinta dal Cretacico che “è impossibile si trovi qui” (in realtà non poteva più che altro perché la specie non esiste).

Arrivati al quarto film già dal trailer eravamo pronti a cedere al sense of wonder, ignorando il fatto che delle scoperte paleontologiche di questi ultimi 20 anni ci sarebbe stata poca traccia. Avevamo aspettato tanto, sarebbe stato un peccato rovinarsi una pellicola che prometteva bene facendo i puntigliosi: per i dinosauri come si deve si può sempre andare al museo invece che al cinema. Per ora ci limitiamo a dire che Jurassic World non ci ha convinti troppo, usciti dalla sala non eravamo proprio rammaricati ma insomma, nemmeno soddisfatti. Perciò tralasciamo la storia e torniamo ai dinosauri, che dal punto di vista paleontologico sono in pratica gli stessi del 1993.

Come potremmo rappresentarli, vent’anni di scoperte dopo? Ad esempio con le piume, con le creste, con i barbigli colorati. “La prima edizione del film risale ormai a più di 20 anni fa e i dinosauri piumati sono stati scoperti in Cina proprio negli anni Novanta, con diversi generi come Caudipterix, Protoarchaepteryx, Beipiaosaurus, Microraptor. Era comprensibile che nel primo JP queste novità evolutive non fossero ancora state recepite”, commenta Walter Landini, professore di Paleontologia dei Vertebrati all’Università di Pisa. “Le ipotesi sui colori vivaci invece si erano affacciate ben prima della scoperta del piumaggio: il comportamento sociale di molti gruppi, come gli adrosauri, il dimorfismo sessuale riscontrato nei ritrovamenti fossili e altre caratteristiche comportamentali ci avevano permesso di supporre che, in una vita relazionale piuttosto complessa, il cromatismo giocasse un ruolo importante”.

Gli uccelli come sappiamo derivano dai dinosauri e, ora, colori e tratti sgargianti sono all’ordine del giorno (basta pensare agli uccelli del paradiso). Ma i “nuovi” dinosauri sono in realtà ancora vecchia scuola, dalla pelle liscia o squamosa e colori quasi sempre scuri: i produttori si sono tenuti stretti quello che il pubblico già conosceva, salvo poche new entry come il mosasauro che, va detto, fa la sua figura -anche se è più grande rispetto alle dimensioni stabilite dai paleontologi ma il motto di Jurassic World è in pratica “più grande, più denti, più WOW”. Ci sta. Intanto, nel mondo reale, la paleontologia è una disciplina naturalistica deduttiva, “pertanto ci si muove tra dati incompleti e ipotesi sempre nuove. Quando poi è di scena un gruppo completamente estinto, ovviamente, le opinioni possono divergere. Sensibilmente”, spiega Landini.

“Uno studio recente, ad esempio, ha confrontato i melanosomi antichi [organelli deputati all’accumulo di melanina] con quelli che conosciamo al giorno d’oggi. Ha messo in evidenza che l’aumento della loro diversità si può collocare intorno a150milioni di anni fa, ovvero proprio in quel momento fissato come origine e radiazione degli uccelli”, spiega Landini. “Sempre secondo questo studio la presenza dei melanosomi sembra relegata ai mammiferi e alle linee rettiliane che hanno portato fino agli uccelli, mentre gli altri rettili e dinosauri non li possedevano affatto”. Ma melanosomi o meno è molto probabile che i dinosauri con un comportamento sociale molto complesso (come adrosauri e ceratopsidi, ornitischi) avessero evoluto colorazioni accese almeno sul capo. “Anche le creste dei ceratosauri, un gruppo di dinosauri carnivori, erano probabilmente colorate perché svolgevano una funzione rituale”.

Torniamo invece ai velociraptor: in JW sono quattro, sono ancora fighissimi, ancora più grandi di com’erano in realtà e spiumati, più vicini a un Deinonychus che a un dromeosauride. Ma nel nuovo film giocano un ruolo piuttosto interessante o, perlomeno, permettono a uno dei “cattivi” di ipotizzare l’utilizzo dei piccoli e agili carnivori in guerra. Molto meglio dei droni, dice lui. Anche se il drone quando smette di obbedire non ti mangia, e siamo piuttosto scettici sugli sguardi d’intesa velociraptor – T. rex dopo un’ottima azione di squadra (spoiler). Ma quanto erano intelligenti i velociraptor, davvero, mentre noi li immaginiamo come organizzati e geniali lucertoloni?

“Questo discorso parte sempre dall’EQ, il quoziente di encefalizzazione, che ci serve per stimare la potenziale intelligenza di un qualsiasi organismo”, spiega Landini. “È la misura standardizzata del rapporto tra la massa del cervello e quella del corpo: se per noi è compreso tra 6 e 8 e per un delfino si colloca a 5, più alto di quello dei primati, in alcuni dinosauri teropodi come il troodonte e il velociraptor si può arrivare intorno a 6”. Quindi erano intelligenti più o meno come noi e più di un delfino o un primate? Possiamo continuare a pensarlo con serenità, ma “se questo valore possa davvero essere tradotto in elaborate capacità di relazione e in una vita sociale come è stata ipotizzata, questo è tutto da dimostrare”.

“Elly possiamo anche bruciare i manuali sui sauri a sangue freddo” (1993). Ma davvero (2015)? “La fisiologia è un altro tema assai dibattuto. In mancanza di modelli di riferimento si può lavorare solo in base a deduzioni, e non c’è un modello unico che possa funzionare per l’intero gruppo dei dinosauri”, commenta Landini. “Per i grandi sauropodi come i diplodocidi e i titanosauri, che contavano decine di tonnellate di peso, il modello proposto è quello dell’ectotermia di massa. Grazie alla fermentazione batterica la gran quantità di vegetali che ingerivano forniva, durante la digestione, il calore necessario. Calore che veniva trattenuto e poi lentamente disperso dalla grande massa corporea”. Per alcuni teropodi il discorso è diverso ed entrano in gioco le piume: la loro presenza “caratteristica degli uccelli, che sono omeotermi, depone a favore del sangue caldo”, spiega Landini. Il piumaggio non si sarebbe evoluto per il volo ma come struttura isolante, per proteggere il corpo dei dinosauri come fa il piumino per i pulcini. “Solo in un secondo momento le piume si sono specializzate per poter svolgere anche altre funzioni, come il volo o il corteggiamento”.

Immutato è il T. rex, che se stai fermo forse non ti vede ed è un predatore attivo. Perché “il Tirannosauro il cibo non l’accetta. Lui vuole cacciare. Non si può sopprimere un istinto vecchio di 65 milioni di anni” diceva Alan Grant nel 1993. Arrivati al 2015 sulla sua alimentazione si è detto di tutto: scavenger ma anche predatore attivo. Quello che oggi ci fa davvero propendere per la seconda ipotesi “è la potenza del suo morso, insieme alla struttura dei denti molti simile a quelli di altri teropodi predatori attivi. Ma l’utilizzare carogne e come opportunista può essere visto come un modello non alternativo, ma complementare”, spiega Landini.

“I T. rex poi avevano un buon campo visivo e la visione stereoscopica, erano in grado di sovrapporre i campi visivi dei due occhi. Questo tipo di disposizione privilegiava la visione anteriore e laterale ma non quella latero-posteriore”. Al T. rex e ad altri predatori -chissà come ci vede l’Indominus rex– la visione stereoscopica serviva per poter stimare la profondità di campo. Visione diversa da quella dei dinosauri erbivori, con un campo visivo a 360° (180° per lato) che permetteva loro di avvertire nello spazio circostante la presenza di una minaccia. 

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Dinosauri, le scoperte del 2015 (II parte)

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".