POLITICA

Verso Parigi, tra scienza, politica e sicurezza

Entro il 2030, il Piano Energia Pulita annunciato dal presidente Obama potrebbe ridurre del 30% le emissioni USA di gas serra rispetto a quelle del 2005. Meglio poco e tardi che mai.

APPROFONDIMENTO – Si scalda il clima, politico e retorico, in preparazione di due incontri mondiali, collegati: quello delle Nazioni Unite che in settembre stabilirà gli Obiettivi dello sviluppo sostenibile per i prossimi 15 anni e il vertice COP21 in dicembre dove – forse – le 194 nazioni firmatarie della Convenzione sul cambiamento climatico stabiliranno riduzioni vincolanti delle emissioni di gas serra da realizzare entro lo stesso periodo.

Molte nazioni hanno già preso impegni, modesti ma superiori a quelli che non avevano rispettato da firmatarie del protocollo di Kyoto, e il presidente Obama ha probabilmente ragione nel dire che accadrà la stessa cosa se gli USA staranno ai margini della trattativa o la ostacoleranno, come dal 1992 in poi. Per i climatologi, la leadership americana promessa il 3 agosto fa sperare in un “primo passo”; tenuto conto del potere delle lobby e della maggioranza repubblicana in numerosi stati, il Piano Energia Pulita, che potrebbe ridurre del 30% le emissioni rispetto al 2005, è realistico, dicono. Però – elezione di un presidente democratico nel 2016 e tribunali permettendo – il piano entrerà in vigore nel 2018 se va bene, e sottovaluta l’urgenza di bloccare le emissioni d gas climalteranti (Gli epidemiologi sono entusiasti dei limiti che dovrebbero essere imposti alle centrali termo-elettriche a carbone).

Forse gli scienziati sottovalutano gli Stati americani e stranieri “portoghesi” che sfrutteranno comunque l’ambiente perché è un bene comune, così come i politici, disinformati o meno dalle lobby, sottovalutano i cambiamenti climatici già avvenuti e quelli “nel pipe-line”. Eppure i politici erano stati avvisati. Quest’anno si celebrano due anniversari tondi, oltre ai 70 anni delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Un nesso c’è.

L’8 febbraio 1965, Lyndon Johnson anticipava al Congresso il rapporto sull’ambiente di un’apposita Consulta scientifica:

Questa generazione ha modificato la composizione dell’atmosfera su scala globale con materiali radioattivi e con l’aumento costante dell’anidride carbonica dovuto all’uso di combustibili fossi.

Nell’appendice al rapporto, curata dal geofisico Roger Revelle, erano elencate le conseguenze probabili dell’“esperimento senza precedenti” che l’umanità faceva con il pianeta bruciando combustibili fossili. Nel 1975, usciva sul Journal of Atmospheric Sciences la prima simulazione di un raddoppio della CO2, a firma di Syukuro Manabe e Richard T. Wetherald. E tre anni dopo, sullo stesso Univac da antiquariato, un classico che non ha più smesso di essere citato: “On the distribution of climate change resulting from an increase of the CO2 content of the atmosphere”. Erano modelli semplici, eppure le previsioni erano corrette.

In quarant’anni, i modelli sono diventati molto più sofisticati. Su scala regionale sono tuttora deludenti, ma forse una piccola selezione di articoli recenti spiegano come mai sono invidiati da epidemiologi, economisti o agronomi.

 Su Nature Communications, Sönke Dangendorf, Eduardo Zorita e colleghi scrivono che

le misure (del livello del mare, ndr) disponibili per gli ultimi due secoli rappresentano soltanto una fetta sottile della storia della Terra, limitando la nostra conoscenza dei segnali naturali a bassa frequenza nel sistema climatico.

Suppliscono con molta matematica, e  concludono:

è virtualmente certo (P=0.99) che almeno il  45% dell’innalzamento globale del livello del mare è di origine antropica.

Così com’è virtualmente certo che il 110% del riscaldamento della temperatura è dovuta ai gas serra. Sembra assurdo solo se si dimentica che molte variazioni stocastiche naturali – eruzioni vulcaniche, declino dell’attività solare, ENSO in fase negativa ecc. – raffreddano il clima.

Sulle Environmental  Research  Letters, Stefan Rahmstorf et al. utilizzano un nuovo strumento statistico, la “change point analysis”, e trovano che il rallentamento del riscaldamento globale a cavallo del 2010 era un’illusione

Le variazioni recenti nelle tendenze a breve termine sono del tutto coerenti con una tendenza costante del riscaldamento globale alla quale si sovrappongono variazioni stocastiche di breve periodo.  Sulla base dei dati disponibili, ne concludiamo che è scorretto usare il termine “iato” o “pausa” .                     

Su Glaciology, il gruppo del World Glacier Monitoring Service, tra cui Mauri Pelto e Carlo Baroni, documenta il “declino globale storicamente senza precedenti dei ghiacciai all’inizio del 21mo secolo”. Come al solito, mezza dozzina di ghiacciai fanno i bastian contrari, ma ricrescono di pochissimo:

Le osservazioni glaciologiche e geodesiche (~5200 dal 1850 in poi) mostrano che il tasso di perdita di massa all’inizio del 21mo secolo sono senza precedenti su scala globale almeno per il periodo considerato e probabilmente per quello storico come indicato da ricostruzioni  basate su testi scritti e illustrazioni. Questo forte squilibrio implica che i ghiacci di molte regoni soffriranno ulteriori perdite anche se il clima rimarrà stabile.

In questa stagione James Hansen, il più famoso dei “modellisti“, finisce solitamente in galera. Questa volta insieme a 16 autori, tra i quali molti oceanografi e glaciologi, pubblica “Ice melt, sea level rise and superstorms: evidence from paleoclimate data, climate modeling, and modern observations that 2 ◦C global warming is highly dangerous nella rivista Atmospheric Chemistry & Physics che pratica la “open peer-review”. Si tratta di una bozza alla quale iniziano ad arrivare critiche e suggerimenti dei colleghi, ma la conclusione non dovrebbe cambiare:

Per stabilizzare il clima, occorre innanzitutto rimuovere lo squilibrio energetico della Terra, ora di circa +0.6 W/mq – l’energia maggiore in entrata che in uscita – cioè ridurre la CO2 atmosferica da ∼400 a ∼350 ppm.

Chi non trova abbastanza inquietanti gli effetti domino dello scenario “business as usual” simulato dal modello di Hansen e colleghi potrebbe leggere le “Implicazioni per la sicurezza nazionale dei rischi e cambiamenti climatici”, la risposta del Pentagono a una richiesta del Senato USA:

Il Dipartimento della Difesa considera il cambiamento climatico una minaccia attuale alla sicurezza e non strettamente un rischio a lungo termine. Osserviamo già gli impatti degli shocks and stressors sulle nazioni e le comunità vulnerabili, negli Stati Uniti inclusi, e nell’Artico, nel Medioriente, in Africa, in Asia e in Sudamerica.

Gli “shocks and stressors” sono gli eventi meteorologi estremi – alluvioni, siccità, ondate di calore – che dall’inizio del secolo mietono vittime, spostano popolazioni e generano conflitti per il mondo, con un’intensità e una frequenza “storicamente senza precedenti”.

Leggi anche: Verso Parigi, tra diritto alla salute e rischi climatici

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.    

Crediti immagine: El Niño 21 luglio 2015, NOAA/Public Domain

 

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