SCOPERTE

Quando l’ordine delle parole rilassa il cervello

Lo dice uno studio del MIT su 37 lingue, il più grande mai realizzato

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SCOPERTE – Un recente studio del MIT eseguito su 37 diverse lingue ha mostrato che nella maggior parte dei linguaggi le parole che a livello di significato stanno insieme, cioè dipendono l’una dall’altra, vengono utilizzate dai parlanti l’una accanto all’altra nella frase. Un segno del fatto che nell’usare il linguaggio preferiamo raggruppare le parole a seconda del significati, quando possibile, anche a parità di correttezza grammaticale.

Lo studio, pubblicato su PNAS, è il più grande di questo tipo mai realizzato fino a oggi e suggerisce che i parlanti tendono a preferire frasi dove le parole dipendenti l’una dall’altra sono raggruppate, dove cioè la “dependency length minimization” (DLM) è minore. Per fare un esempio, fra “portare fuori la spazzatura” e “portare la spazzatura fuori”, sebbene entrambe siano corrette, è la prima quella maggiormente usata.

“Le persone vogliono che le parole che sono legate fra di loro come significato in una frase siano vicine – spiega Richard Futrell, uno degli autori – e questo per farci fare meno fatica, come parlanti, come interlocutori e come lettori.”

Per condurre lo studio, i ricercatori hanno utilizzato quattro grandi database di frasi, che sono state analizzate dal punto di vista grammaticale: uno proveniente dalla Charles University di Praga, uno da Google, uno dallo Universal Dependencies Consortium (un nuovo gruppo di linguisti computazionali), e un database in lingua cinese proveniente dal Linguistic Dependencies Consortium database dell’Università della Pennsylvania. Le frasi considerate sono tratte da testi pubblicati, e quindi rappresentano l’uso corrente delle diverse lingue.

In linguistica computazionale il punto nevralgico è come i fenomeni vengono quantificati. Qui i ricercatori hanno confrontato la DLM all’interno delle frasi con un paio di lunghezze standard in ogni lingua. Una delle due misure di riferimento considerava una distanza casuale fra ogni parola posta a inizio frase e la collocazione della sua parola dipendente (riguardo all’esempio fatto prima, fra “portare” e “fuori”). In ogni modo, dato che ogni lingua, inglese compreso, segue regole proprie circa la collocazione delle parole nelle frasi, i ricercatori hanno scelto di utilizzare anche una seconda misura standard che tenesse conto degli effetti di questa relazione d’ordine fra i termini.

Sia che seguissero la prima o la seconda delle lunghezze di riferimento, il risultato individuato dai ricercatori è stato lo stesso: la tendenza a minimizzare la distanza tra parole dipendenti esiste nella maggior parte delle lingue esaminate, seppure in varia misura. In italiano per esempio sembra che questo meccanismo funzioni moltissimo, specialmente nel caso delle frasi brevi, mentre nella lingua tedesca questa tendenza a raggruppare le parole in base al significato è molto meno presente.

I ricercatori hanno individuato inoltre delle lingue cosiddette “head-final” come il giapponese, il coreano e il turco, dove la parola portante compare dopo nella frase, cioè a una distanza in realtà inferiore con la sua “dipendente” rispetto a quanto si potrebbe pensare. Questo potrebbe essere dovuto, secondo i ricercatori, al fatto che queste lingue fanno uso di contrassegni, che denotano la funzione di una parola (se il sostantivo è soggetto o oggetto della frase e così via), che compenserebbero la distanza fra le parole.

“In questi linguaggi, dove è il contrassegno a far capire il ruolo di una parola all’interno della frase, il parametro della DLM potrebbe essere meno importante, perché i parlanti sentirebbero meno il bisogno di avvicinare le parole più legate a livello semantico, per facilitare la comprensione”, spiegano gli autori.

@CristinaDaRold

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Crediti immagine: Abhi Sharma, Flickr

 

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.