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Distruggere gli habitat per aumentare la sicurezza alimentare. Ne vale la pena?

Per evitare la presenza di animali selvatici e dei patogeni nei campi, si elimina la vegetazione che li circonda. Ma è un provvedimento inutile e controproducente

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AMBIENTE – Da Berkeley gli scienziati mettono in guardia: tutti gli sforzi messi in atto per “ripulire” le coltivazioni dalla vegetazione circostante, in modo da aumentare la sicurezza del cibo prodotto, non solamente non sono d’aiuto ma addirittura possono rivelarsi controproducenti. I ricercatori lo scrivono sulla rivista PNAS questionando l’intero sistema che prevede la rimozione della vegetazione estranea alla coltivazione per ridurre la “contaminazione” in campo dei prodotti agricoli da parte di patogeni.

Si tratta di una pratica che da lungo tempo causa una perdita di habitat a livello estensivo, e negli Stati Uniti si è intensificata a partire dal 2006, quando a causa del batterio Escherichia coli contenuto in spinaci confezionati morirono tre persone, e altre centinaia negli USA si ammalarono. “La fauna selvatica si prese gran parte della colpa per quell’epidemia, nonostante i tassi di presenza del batterio negli animali selvatici siano sempre piuttosto bassi”, commenta Daniel Karp, leader dello studio e ricercatore postdoc alla UC Berkeley’s nel Department of Environmental Science, Policy and Management and The Nature Conservancy.

“Oggi chi coltiva si trova a subire le pressioni dei consumatori per implementare le pratiche che impediscono agli animali selvatici di avvicinarsi i campi. Questo include eliminare cespugli, piante e alberi che potrebbero essere per loro una fonte di nutrimento, ma dal nostro studio è emerso che la pratica non ha portato a una riduzione di E. coli e Salmonella come tutti speravano”, aggiunge lo scienziato.

Al contrario, la coesistenza di svariati habitat a circondare i campi coltivati può portare una serie di benefici all’agricoltura. A partire dal fatto che incoraggia la presenza di popolazioni selvatiche di api e la conseguente impollinazione. “Alcuni studi hanno poi suggerito che un paesaggio ricco in termini di diversità vegetale può riuscire a eliminare la dispersione delle sostanze chimiche usate in agricoltura e addirittura dei batteri. Non sono dinamiche che si può cambiare così alla leggera”, continua lo scienziato.

Nei campioni di prodotti, acqua utilizzata e roditori del luogo provenienti da 295 fattorie di Stati Uniti, Messico e Cile, gli scienziati sono andati alla ricerca di E.coli, nei vari ceppi anche generici, e di Salmonella, combinando le informazioni con quelle sull’ambiente circostante il campo di provenienza.

Hanno scoperto che la rimozione della vegetazione della zona ripariale o di altre tipologie non aveva fatto diminuire i patogeni in nessun caso, anzi, i produttori che avevano rimosso maggiori quantità di vegetazione intorno ai loro campi erano gli stessi ad aver visto aumentare la presenza di E. coli e Salmonella nel corso del tempo. “Rimuovere la vegetazione è una pratica costosa e impegnativa, che minaccia l’habitat degli animali selvatici”, spiega Karp. “Visto che non migliora la sicurezza alimentare, non c’è motivo di continuare a farlo”.

È emerso invece che la probabilità di trovare E. coli aumentava nei campi situati entro 1,5  chilometri di distanza da terreni adibiti a pascolo. “Non è chiaro se i responsabili di un tasso di patogeni così alto siano il bestiame che pascola su quei campi oppure la fauna selvatica, ma esistono comunque molti modi in cui l’agricoltura e l’allevamento possono coesistere in un sistema diversificato”, spiega Karp, che con i colleghi suggerisce di:

  • Lasciare strisce di vegetazione tra le aree adibite a pascolo e quelle in cui si producono alimenti
  • Recintare i corsi d’acqua a monte per evitare che il liquame degli animali allevati arrivi a valle
  • Piantare specie vegetali che vanno cucinate prima di essere consumate (mais, carciofi, grano) tra i campi coltivati a prodotti freschi e le terre adibite a pascolo
  • Rivedere le pratiche agricole

Dopo l’emergenza E. coli del 2006 negli spinaci, l’industria agricola californiana ha implementato la possibilità di munirsi di una certificazione volontaria chiamata Leafy Green Products Handler Marketing Agreement. Nel 2011, poi, il presidente Obama ha firmato il Food Safety Modernization Act, un altro sforzo volto a prevenire i problemi alla sicurezza alimentare piuttosto che doverli risolvere.

“La cosa che davvero mi preoccupa è che la legge federale possa essere considerata il punto di partenza, e non quello di arrivo, delle buone pratiche che gli agricoltori devono seguire”, spiega Karp. “C’è questa idea -sbagliata- che i campi debbano essere un ambiente sterilizzato, disinfettato, un po’ come un ospedale. Ma la natura non funziona così”.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Che effetti ha il cambiamento climatico sull’agricoltura europea?

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Lauren Tucker, Flickr

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".