GRAVIDANZA E DINTORNI

L’esercito dei piccoli Achille

Sono quasi 28.500 i minorenni italiani fuori dalla famiglia d'origine, in comunità o in affido. Ma quando un bambino può essere allontanato dai genitori?

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GRAVIDANZA E DINTORNI – Il caso del piccolo Achille, il figlio di Martina Levato e Alex Boettcher, la “coppia dell’acido”, ha già fatto molto discutere (e di sicuro ne farà ancora). Il bimbo è nato il 15 agosto scorso: nei suoi primi giorni di vita ha visto la madre una volta al giorno, in ospedale, mentre da quando lei è tornata in carcere, il piccolo è stato affidato a una comunità per minori del Comune di Milano e la incontra una volta alla settimana a San Vittore. Così ha deciso il Tribunale per i minori di Milano, non senza polemiche ed entro il 30 settembre è attesa la relazione dei servizi sociali sulla possibilità di affido del piccolo ai nonni. Ma come funziona esattamente l’allontanamento di un minore dalla famiglia? In quali situazioni un giudice può decidere che un bambino o una bambina devono essere “tolti” ai genitori (o al nucleo famigliare allargato) e affidati a comunità o ad altre famiglie o addirittura essere dati in adozione?

“La prima cosa da chiarire è che non si parla più di potestà genitoriale, ma di responsabilità: una modifica che inquadra il rapporto genitori-figli non più come somma di poteri, ma come somma di doveri“. Parola di Filippo Danovi, avvocato esperto di diritto di famiglia e minorile e ordinario di diritto processuale civile all’Università di Milano Bicocca. Che prosegue: “Secondo il nostro Codice Civile, il tribunale per i minorenni può stabilire la decadenza della responsabilità genitoriale quando un genitore violi o trascuri i suoi doveri oppure abusi dei suoi poteri, con grave pregiudizio per il minore“. In pratica, si tratta di tutte quelle situazioni in cui i comportamenti di una mamma o di un papà (o di entrambi) siano tali da impedire la crescita “sana” ed equilibrata del figlio: violenza fisica, abuso psicologico, incapacità educativa, totale incapacità di comprenderne i bisogni, rifiuto di farlo sottoporre a interventi medici ritenuti necessari per la salvaguardia della sua salute o della sua vita. “Tutto ciò può portare il giudice a ordinare l’allontanamento del figlio dalla sua residenza, oppure l’allontanamento del genitore che lo maltratta” precisa Danovi. Non solo: sempre secondo il Codice Civile, il giudice può stabilire l’allontanamento anche senza aver pronunciato la decadenza di genitorialità, se comunque ritiene che la condotta del genitore costituisca un problema per il figlio.

Detto questo, il Codice non si sofferma a elencare i casi possibili di violazione, trascuratezza, negligenza, abuso e via dicendo: “Non è un mondo in bianco e nero, ma un mondo fatto di sfumature, in cui si decide caso per caso, valutando ogni singola e specifica situazione” dichiara Emma Scopelliti, psicologa e giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Catanzaro. Anche nel caso in cui una mamma o un papà abbiano commesso un crimine, non necessariamente questo basta a dichiararli “cattivi genitori”, tanto che ci sono situazioni (ovviamente controverse) nelle quali una donna può tenere in carcere il proprio figlio. “Per esempio, in caso di condanna per spaccio di stupefacenti, si darà un giudizio negativo sull’idoneità genitoriale solo se il comportamento del genitore è stato tale da mettere in pericolo il figlio, magari perché aveva allestito in casa un laboratorio di trasformazione della droga, che rimaneva alla portata del bambino” spiega il giudice. “Solo in alcune situazioni particolari, come una condanna per induzione alla prostituzione minorile, la decadenza dalla responsabilità genitoriale fa automaticamente parte della pena”.

Stessa cosa per un’eventuale malattia psichiatrica del genitore: “Di solito non basta una diagnosi di malattia per dire che un uomo o una donna non sono in grado di prendersi cura del figlio” spiega Scopelliti. “È la situazione in cui quel bambino o quel ragazzo si trova a vivere, la rete familiare nella quale è inserito, al di là del singolo genitore malato, che viene presa in considerazione”. Il giudice offre un esempio concreto. “Prendiamo il caso di una donna con disturbo bipolare, che segue la terapia a fasi alterne, vive in condizioni socioeconomiche disagiate, ed ha altri familiari con malattie psichiatriche. Supponiamo che questa donna abbia un bambino e che arrivi all’attenzione dei servizi sociali dopo un trattamento sanitario obbligatorio, perché ha smesso di assumere i farmaci e la sua malattia è  scompensata. In un primo momento, le autorità potrebbero stabilire il ricovero della mamma e del neonato in una struttura in cui la donna può seguire una terapia e imparare ad assumere le sue capacità genitoriali. Bene: se la donna collabora e il percorso funziona, alla fine verrà dimessa insieme al suo bambino, anche se in presenza di malattia mentale. Se invece rifiuta la terapia, magari se ne va o mostra di non essere in grado di accudire il suo bambino, probabilmente si deciderà per l’allontanamento del piccolo da lei e dal resto del nucleo famigliare, altrettanto incapace di prendersene cura”.

L’esempio chiarisce quello che, di norma, dovrebbe essere il percorso che si segue in questi casi: cercare il più possibile di difendere il legame tra il minore e la sua famiglia e solo in seconda battuta arrivare all’allontanamento o, addirittura, alla dichiarazione di  adottabilità, una soluzione estrema che si stabilisce quando c’è abbandono morale e materiale del bambino e l’idoneità genitoriale è considerata irrecuperabile. “Tanto per cominciare, a volte sono carenti o abusanti entrambi i genitori, mentre altre volte lo è uno soltanto dei due” sottolinea Danovi. “In questi casi, giocano un ruolo molto importante l’altro genitore e la sua capacità a gestire la situazione e a creare un ambiente adatto allo sviluppo del figlio, magari con il supporto dei servizi sociali. Altre volte potrebbero essere i nonni a svolgere questo ruolo. Comunque, quando possibile il primo passo è sempre quello di mantenere il contatto con i genitori, coinvolgendoli magari in percorsi di sostegno educativo o di psicoterapia”. Altro esempio: supponiamo che un bambino venga segnalato all’attenzione dei servizi sociali perché non va a scuola (ovviamente non stiamo parlando di una famiglia che pratichi l’homeschooling). Per prima cosa si cercherà di capire cosa ha portato a questa situazione: una condizione di incuria e abbandono del bambino? O il fatto che i genitori, a loro volta non scolarizzati, non sono consapevoli dell’importanza della scuola per lo sviluppo sociale, cognitivo e relazionale del figlio? Capite le ragioni, si proverà a lavorare con la famiglia per risolvere la situazione e non è detto che per forza si debba arrivare ad allontanare il bambino da casa.

Di norma, le decisioni sulla responsabilità genitoriale spettano al tribunale dei minori, ma in caso di procedimenti di separazione e divorzio anche quello ordinario può emettere giudizi in questo senso. E in via eccezionale, anche i servizi sociali locali possono stabilire l’allontanamento temporaneo di un minore, se si ritiene che si trovi in una condizione di imminente pericolo. Ma come arrivano all’attenzione di giudici e assistenti sociali queste situazioni? “Esistono varie strade” spiega Scopelliti. “Se c’è di mezzo un reato, per esempio, c’è anche una comunicazione diretta tra tribunali. Alcuni casi sono segnalati al tribunale dei minori dai servizi sociali o dalla procura. Altre ‘allerte’ arrivano alle forze dell’ordine o ai servizi sociali da scuole o singoli cittadini”.

Per la valutazione dell’idoneità genitoriale, i tribunali si affidano ai cosidetti consulenti tecnici d’ufficio: “Esperti, di solito psicologi o psichiatri, che eseguono questa valutazione sulla base di osservazioni, colloqui e test standardizzati” spiega Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia clinica all’Università di Padova e lui stesso perito per vari tribunali italiani.”Per esempio, secondo il cosiddetto Protocollo di Milano, si cerca di valutare aspetti come la capacità di capire le esigenze fondamentali (sanitarie, alimentari, igieniche) di un figlio, rispondendo di conseguenza a queste esigenze, di comprendere i suoi stati emotivi, di interagire con lui (in termine di relazione genitoriale e di regole di comportamento) in modo congruente alle sue tappe di sviluppo“.

Alla fine del percorso, il giudice stabilirà se il bambino deve essere allontanto o meno da uno o da entrambi i genitori (o dal nucleo famigliare allargato). Secondo i dati dell’ottavo rapporto del gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (CRC), a fine 2012 risultavano in Italia 28 449 minori fuori famiglia, con una leggera flessione rispetto all’anno precedente e in generale un trend in diminuzione dal 2007. Poco più della metà sono ospiti di comunità e strutture, dove arrivano per lo più per problemi di incapacità educativa, negligenza, trascuratezza, problemi economici, problemi psico-fisici dei genitori. Poco meno della metà sono  assegnati all’affido familiare. E per quanto riguarda le adozioni, nel 2013 sono stati 1222 i minori per i quali è stato dichiarato lo stato di adottabilità (un dato in linea con quelli degli anni precedenti). Che dire in proposito? Il Gruppo di lavoro CRC non ha dubbi: c’è ancora molto da fare per migliorare la situazione, soprattutto per quanto riguarda i più piccoli. “Preoccupa – si legge nel rapporto – il ridotto numero di bambini tra 0 e 2 anni affidati, rispetto a quelli inseriti in comunità: sono solo il 35,8%, nonostante siano conosciute da decenni le conseguenze negative sullo sviluppo del bambino della carenza/deprivazione di cure familiari nei primi anni di vita”. Inoltre, si potrebbe fare di più proprio per prevenire l’allontanamento dalle famiglie di origine, con più sostegni mirati alle famiglie stesse.

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CRediti immagine: Lance Shields, Flickr

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance