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La scuola italiana è pronta per la rivoluzione digitale?

Abbiamo un salto di 15 anni da colmare: viaggio tra materiali e competenze mancanti.

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SPECIALE SETTEMBRE – Un computer serve a digitalizzare un processo esistente o è una leva per lo sviluppo sociale? La domanda, che ben si applica a economia e amministrazione, può essere estesa anche al mondo della scuola. Infatti il decreto legislativo “La buona scuola” punta all’aumento dell’uso delle nuove tecnologie a servizio della formazione. La questione da valutare è quanto sia pronta la scuola ad applicare tale decreto.

A partire dal 2008 l’Italia ha attivato alcune misure per portare la digitalizzazione nelle scuole. Per esempio nelle classi sono entrate le lavagne interattive (LIM), che con le loro potenzialità multimediali ampliano l’offerta di contenuti. Con il progetto cl@assi2.0 sono state avviate le prime sperimentazioni di classi tecnologicamente avanzate. Infine si è tentato di coinvolgere le zone più isolate dal punto di vista territoriale con progetti come “isole in rete”. Anche a livello di strumentazione tra il 2013 e il 2014 si è registrato un aumento delle dotazioni tecnologiche.

Ma l’Italia resta un Paese ancora variegato per quanto riguarda l’istruzione digitale. Secondo Paolo Ferri, docente di Tecnologie Didattiche presso l’Università Milano Bicocca, “esistono forti differenze tra una regione e l’altra: Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Lazio, Umbria e Friuli Venezia Giulia sono le più avanzate nell’introduzione della tecnologia”. Ma manca uniformità anche all’interno di una stessa regione: “i piccoli centri a volte sono più avanzati delle grandi città, che hanno perso il legame diretto con il territorio“.

Certo non mancano casi virtuosi e eccellenze con progetti di alto livello anche in altre zone, ma “restano casi isolati, spesso difficilmente replicabili”, ha aggiunto Ferri. Se a livello istituzionale il progetto scuola digitale era ben articolato, finora ha avuto un impatto limitato, spesso affidato a buona volontà, progetti privati e intervento delle regioni per realizzare la parte infrastrutturale.

Grazie a questi interventi, il rapporto “Le Dotazioni multimediali per la didattica nelle scuole, A.S. 2013/14” registra la presenza di laboratori informatici dotati di connessione alla rete per il 78% dei casi. Una percentuale che si abbassa analizzando le classi singole, coperte per il 46,5% dalla connessione. Inoltre solo nel 23% degli istituti di secondo ciclo e nel 10% di primo ciclo è presente la connessione ad alta velocità. Nel complesso una classe su dieci ha accesso alla banda larga,mentre le altre ne sono escluse. Affinché dunque si possa realizzare il decreto attuale dedicato all’istruzione, “è indispensabile un potenziamento infrastrutturale, che sembra essere realizzabile nell’arco di 3-4 anni grazie ai fondi stanziati”.

Comunque sia non basta equipaggiare tutte le scuole con le migliori infrastrutture. “I bambini hanno sviluppato un loro modo di usare le tecnologie, che è quello per divertirsi e intrattenersi”, ha continuato Ferri. I nativi digitali sono più consumatori che produttori, più individualisti che cooperativi. “Occorre dunque digitalizzare la scuola per educare alle altre modalità di utilizzo”. Anche l’OCSE lo conferma: se i ragazzi ammettono per il 66% di aver usato il loro PC anche per la scuola, solo il 28% li usa tra le pareti scolastiche.

Finora nelle scuole italiane abbiamo raggiunto buoni livelli di digitalizzazione di alcuni processi: l’introduzione del protocollo informatico riguarda il 78,3% degli istituti, il registro elettronico il 58,2%, la comunicazione online scuola-famiglia il 50,4% delle scuole, mentre l’archiviazione elettronica dei documenti che rimane ferma al 31,2%. Per il resto, “spesso sono gli stessi ragazzi che fanno entrare a scuola la tecnologia” ha commentato Ferri. “Se non punteremo sulla loro formazione anche in ambito digitale saranno esclusi dal mercato del lavoro futuro, che richiede sempre più queste competenze in tutti gli ambiti. A ciò bisogna aggiungere che i nativi digitali, anche grazie al contesto in cui sono nati, hanno stili di apprendimento diversi”.

Secondo il rapporto “Scuola 2.0” di Glocus, “l’approccio lineare, sequenziale, strutturato, argomentativo e per lo più deduttivo dell’insegnamento scolastico tradizionale sono in contrasto con le logiche di ipertestualità, reticolarità ed esplorazione introdotte da Internet”.
Da qui la necessità di introdurre metodologie didattiche attive nella scuola, con classi digitali e virtuali affiancate a quelle reali, perché il digitale non diventi solo una rivisitazione dei modelli tradizionali di insegnamento. In tale contesto l’insegnante avrebbe il compito di progettare più che di trasmettere contenuti. “E tutto ciò a vantaggio non solo dell’istruzione, in genere più efficace quando attiva piuttosto che trasmissiva” ha commentato Ferri, “ma anche della spesa, perché le tecniche attive abbattono i costi di quelle trasmissive”.

La formazione è dunque la trasformazione più delicata da introdurre. Ma questa carenza ci accomuna ad altri Paesi europei, che comunque restano in media 15 anni in anticipo rispetto a noi sulla digitalizzazione della scuola. Perché il miracolo avvenga occorre aumentare la formazione dei docenti, gli “immigrati digitali” cresciuti prima della rivoluzione digitale. E occorre anche ripensare i programmi che ancora non prevedono di rendere produttive le tecnologie per l’apprendimento.

Il Ministero aveva già tentato in passato di migliorare la formazione: il PuntoEdu ha raggiunto 400 mila docenti, ma non ha avuto l’incisività attesa. Anche perché l’unico dato a disposizione riguardo all’efficacia di questa attività è quello del rapporto OCSE, per il quale solo poco più del 10% degli insegnanti dichiara di aver ricevuto una formazione riguardo all’utilizzo di strumenti di didattica digitale.

La “Buona Scuola“, forse anche grazie agli incentivi alla didattica per l’aggiornamento e l’attenzione per gli insegnanti più meritevoli, potrebbe portare a un miglioramento della situazione. In questo però si deve impegnare anche l’Università che “ancora non ha fatto una transazione digitale e che il più delle volte non ha applicato la terza missione che le era stata affidata: quella della formazione continua tramite i MOOC”. Se la “Buona Scuola” è un decreto che offre spunti concreti, occorre comunque trovare i metodi di applicazione a vari livelli per restringere il passo che ci separa dagli altri stati europei.

@AnnoviGiulia

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Crediti immagine: Luceila Ribeiro, Flickr

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Giulia Annovi
Mi occupo di scienza e innovazione, con un occhio speciale ai dati, al mondo della ricerca e all'uso dei social media in ambito accademico e sanitario. Sono interessata alla salute, all'ambiente e, nel mondo microscopico, alle proteine.