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Avere la Sindrome di Brugada e non saperlo

Dal San Raffaele nuove basi per lo studio genetico della malattia

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RICERCA – Il termine “Sindrome di Brugada” non dirà nulla alla maggior parte di noi, eppure probabilmente molti hanno un parente o un amico che ne è stato colpito in età relativamente giovane, prima dei 50 anni, magari senza neanche saperlo. Si tratta delle morti improvvise e inspiegabili che avvengono in giovane età. Il carattere principale della malattia sono delle intense aritmie che non danno né sintomi né avvisaglie e nella maggior parte dei casi si concludono con esito infausto per il paziente. Solitamente si muore di un non meglio precisato “attacco cardiaco” anche se in realtà si tratta di Brugada. E non si tratta nemmeno di una patologia così rara: ne è colpito in Europa un individuo su 5000, per la maggior parte uomini, anche in età molto giovane.

Riconoscere per tempo che in realtà il paziente soffre di questa sindrome potrebbe salvargli la vita, grazie all’impianto di un piccolo defibrillatore in grado di gestire autonomamente l’aritmia qualora dovesse verificarsi. Una soluzione non semplicissima e certamente valida ma che non cura il problema. La ricerca però procede e proprio in questo senso un grande passo in avanti è stato compiuto dai ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, in collaborazione con il CNR di Milano e pubblicato su Human Molecular Genetics. Una nuova ricerca che apre la via alla comprensione delle basi genetiche della malattia. Uno studio che ha individuato quattro nuovi geni candidati associati alla malattia, utilizzando tecniche innovative di sequenziamento del genoma.

“Quello che abbiamo fatto è stato studiare 91 pazienti con diagnosi certa di Brugada, di cui abbiamo analizzato 158 geni” ci racconta Maurizio Ferrari, uno dei ricercatori che ha guidato la ricerca. “Fino a oggi infatti si era studiato principalmente un gene correlato con la malattia, che è mutato in circa il 20-25% delle persone colpite. E il rimanente 75%, ci siamo chiesti? Studiare molti più geni è necessario per due motivi – prosegue Ferrari – per fare diagnosi migliori e per capire quale sia la causa della malattia, di cui oggi sappiamo ancora relativamente poco.” Dall’elenco iniziale di 158 geni, il team ne ha individuati 4 come candidati.

Al momento per diagnosticare la malattia esiste un approccio clinico cardiologico, sia per i casi positivi, in cui cioè si è verificata una criticità che però si è risolta senza la morte del paziente, sia in quelli di familiari di persone colpite che desiderano scongiurare la stessa sorte. Il problema è che per eseguire il test è necessario sottoporsi a una visita cardiologica specialistica. “Noi qui in Lombardia come gruppo San Donato, di cui fa parte il San Raffaele e l’Ospedale San Donato, offriamo questo tipo di servizio avendo centri di altissima specializzazione ” prosegue Ferrari.

Un ultimo aspetto interessante dell’approccio genetico allo studio della malattia riguarda la possibilità di rilevare che la Sindrome di Brugada può coinvolgere una gran varietà di geni, alcuni anche coinvolti nella struttura del cuore, responsabili delle aritmie. “Le malattie cardiache del ritmo hanno molti ‘partecipanti’ conclude Ferrari. Fino a oggi abbiamo sempre pensato che la sindrome di Brugada fosse una cosiddetta malattia degli ‘elettricisti del cuore’, mentre oggi abbiamo gli strumenti per iniziare a studiare la patologia anche come ‘muratori del cuore'”.

@CristinaDaRold

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Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Francesca66, Flickr

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.