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Cancro in gravidanza: sì, curarsi è possibile

La chemioterapia effettuata a partire dal secondo trimestre non sembra avere effetti sullo sviluppo cognitivo e cardiaco del bambino. In caso di malattia, però, rimane il rischio di parto prematuro.

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GRAVIDANZA E DINTORNI – Cancro in gravidanza. Due parole che, insieme, fanno ancora più paura della parola “cancro” da sola. Lo scenario evocato è quello di una scelta terribile tra la vita della madre e quella del bambino. Le cronache ci hanno abituati a storie di mamme che hanno scelto di non curare la propria malattia, nel timore che la terapia potesse nuocere al figlio. Così il bambino è nato, sano, ma loro non ce l’hanno fatta. Altre mamme con lo stesso timore possono fare una scelta differente, cioè quella di interrompere la gravidanza. Eppure, nonostante tutto, oggi la situazione è molto meno drammatica di così, almeno nella maggior parte dei casi. Perché sì: il cancro in gravidanza può essere curato. Ci si può sottoporre a interventi chirurgici, chemioterapia e perfino, in alcune situazioni, radioterapia, senza particolari conseguenze per il bambino. L’ultima conferma in questo senso viene da uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine da un gruppo di lavoro del Network internazionale su cancro, fertilità e gravidanza.

I ricercatori hanno confrontato lo sviluppo cognitivo e quello cardiaco di 129 bambini nati da madri alle quali, durante la gestazione, era stato diagnosticato un tumore, con lo sviluppo di altrettanti bambini nati da madri senza malattia. Tra le madri malate, il 74,4% era stato sottoposto a chemioterapia durante la gravidanza, l’8,5% a radioterapia, il 10% a chirurgia, mentre l’11% circa non aveva affrontato trattamenti. I confronti tra i bambini sono stati effettuati a 18 o a 36 mesi, oppure in entrambi i momenti. Per la valutazione dello sviluppo cognitivo sono state utilizzate le scale standardizzate di Bayley, che prendono in considerazione anche abilità motorie e di linguaggio. Per lo studio della condizione cardiaca – importante perché si sa che alcuni chemioterapici possono provocare problemi al cuore e indagata in un sottogruppo di un centinaio di bambini compresi i controlli – gli strumenti utilizzati sono stati elettrocardiogramma ed ecocardiogramma.

Risultato: non sono state osservate differenze significative nello sviluppo cognitivo e cardiaco dei bambini appartenenti ai due gruppi. Neppure per i bambini esposti in utero a chemioterapia. “Quindi – concludono gli autori – la chemioterapia non ha evidenti effetti avversi sullo sviluppo del bambino”. O almeno non li ha quella somministrata a partire dal secondo trimestre di gravidanza, che è la condizione indagata nello studio. Proseguono i ricercatori: “I nostri dati suggeriscono che la diagnosi di cancro durante la gravidanza non è necessariamente un’indicazione a interrompere la gravidanza stessa e che, per quanto occorra sempre una certa cautela, il trattamento di un tumore materno nel secondo o terzo trimestre non è pericoloso per il feto”.

A guardar bene, però, una differenza tra i due gruppi di bambini c’è, ed è il fatto che tra quelli nati da madri malate sono più numerosi i prematuri. Un aspetto importante, perché un piccolo nato prima del termine – soprattutto se molto precocemente, prima di 30-31 settimane – è a maggior rischio di ritardi neurocognitivi e motori. A volte la nascita pretermine dipende da complicazioni ostetriche legate alla malattia stessa: magari il bimbo si presenta piccolo per età gestazionale o cresce poco perché l’organismo materno è molto debilitato dal tumore (può succedere per stadi già avanzati) ed è quindi necessario farlo nascere prima. Altre volte discende semplicemente dall’idea di allontanare il prima possibile il bambino dal corpo della madre, nel timore che la terapia materna possa fargli male. “Questo nuovo studio, però, conferma che si tratta di una cautela inutile e anzi controproducente”, afferma Fedro Peccatori, uno degli autori della ricerca, direttore dell’Unità di fertilità e procreazione in oncologia all’Istituto europeo di oncologia di Milano (IEO).

Insomma, sembra proprio che la tendenza attuale della clinica sia quella di non esitare a trattare i tumori anche in gravidanza. Ma quanto è diffusa la diagnosi di cancro in questo particolare momento della vita? Per fortuna non molto: succede all’incirca in una gravidanza ogni 1000 (in Italia significa circa 500 casi all’anno). “Le forme più frequenti sono i tumori della mammella e i linfomi, per altro i tumori più frequenti nella fascia di età dai 30 ai 45 anni”, spiega Peccatori. In futuro, però, il dato potrebbe crescere, soprattutto perché si sta alzando l’età materna. E se fino a pochissimi anni fa la diagnosi veniva accolta come una sentenza certa di morte, o per la mamma o per il bambino, oggi per fortuna non è più così.

Al di là della questione degli effetti fetali delle terapie, ci si è anche chiesti a lungo se la presenza di una gravidanza peggiori o meno la malattia. “Oggi l’idea è che la prognosi sia sostanzialmente la stessa per le donne in gravidanza e per le donne che non lo sono”, afferma l’oncologo. “A patto naturalmente che il tumore sia scoperto in tempo e trattato in modo adeguato”.

Certo, la diagnosi rimane un momento complicato, perché i cambiamenti che si verificano nell’organismo durante la gravidanza possono mascherare i primi segnali di un tumore. Classico esempio: un nodulino al seno. Spesso è perfettamente normale, visto il cambiamento di “tessitura” della ghiandola mammaria già nei primi mesi di gestazione. Vista la posta in gioco, però, meglio non lasciare nulla al caso: se sembra che ci sia qualcosa di strano – un nodulo, un linfonodo ingrossato – è bene avvertire subito il medico, che dovrebbe rimandare a ulteriori accertamenti. “È vero, per la sicurezza fetale non si possono fare tutti gli esami possibili, e in particolare radiografie e TAC, per via della somministrazione di radiazioni. Però si possono tranquillamente fare altri test, come mammografia, ecografia, risonanza magnetica, che permettono di chiarire la situazione”.

E per quanto riguarda le terapie, la scelta è abbastanza ampia, ovviamente con tutte le cautele del caso. “Un eventuale intervento chirurgico, per esempio, può essere fatto sempre, perché sono disponibili strategie anestetiche compatibili con il benessere del feto”, precisa Peccatori. Che prosegue. “Per quanto riguarda la chemioterapia, diverse molecole possono essere utilizzate a partire dalle 12-14 settimane di gravidanza e fino a tre settimane circa dal parto. Che, quando possibile, va programmato a termine e non prima”. Sono molecole come le antracicline, gli achilanti e i taxani: relativamente sicure se assunte a partire dal secondo trimestre, ma pericolose nel primo trimestre per l’elevato rischio di malformazioni fetali gravi (circa il 20% dei casi). “Quando possibile si rimanda la terapia ad almeno 12-13 settimane e in effetti alcune forme tumorali concedono questo tempo di attesa. Se non si può aspettare, la donna deve sapere che c’è un elevato rischio di malformazioni e scegliere se correrlo o interrompere la gravidanza”. Una scelta spesso non facile, ed ecco perché è importante che nell’équipe multidisciplinare che segue la donna incinta con tumore ci sia anche uno psicologo, in grado di affiancare lei e la famiglia in queste scelte complesse.

Una cautela ancora maggior riguarda i farmaci di nuova generazione, come i farmaci biologici. “Alcuni, come l’interferone alfa, l’imatinib  o l’acido retinoico possono essere usati con cautela, in particolari situazioni. Altri, come l’anticorpo monoclonale trastuzumab, che può provocare oligoidramnios, una condizione con riduzione massiccia del liquido amniotico che può portare a morte fetale, devono essere evitati”, precisa Peccatori, tra gli autori di una recente review proprio su questo argomento.

E per quanto riguarda la radioterapia? “È tendenzialmente pericolosa in tutti i trimestri di gravidanza: all’inizio può provocare malformazioni e più avanti ritardi dello sviluppo cerebrale fetale. Però in alcuni casi selezionati può essere utilizzata: per esempio, se il sito da irradiare è molto lontano dall’addome e quindi dal bambino. Ovviamente, sempre utilizzando le apposite schermature”.

Di sicuro c’è ancora molto da fare, come capire la tossicità dei singoli farmaci o di loro combinazioni e capire quali effetti potrebbero avere sul bambino non solo a breve ma anche a lungo termine. Però indubbiamente il clima generale sul tema cancro e gravidanza è cambiato. Non a caso, l’editoriale del NEJM dedicato allo studio descritto parla proprio di “cauto ottimismo”.

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Credit Immagine: Iashina, Pixabay

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance