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Tutto ciò che c’è da sapere sul diabete di tipo 2

Diversi sono gli approcci che i ricercatori stanno studiando per trattare e curare la malattia. Ma l'arma migliore rimane ancora la prevenzione

Sono circa 3 milioni le persone affette da diabete di tipo 2 in Italia ma un’attività fisica moderata e una dieta equilibrata aiutano a prevenire la malattia. Crediti immagine: TipsTimesAdmin, Flickr

APPROFONDIMENTO – Il diabete di tipo 2, come abbiamo visto, riguarda il 90% dei malati di diabete mellito, e l’incidenza della malattia è destinata a crescere. Oggi in Italia il 5% circa della popolazione è diabetica, per un totale di circa 3 milioni di persone, più un ulteriore milione di cittadini che non sanno ancora di soffrirne. Si tratta di una malattia che si presenta in genere in età adulta, anche se sono in aumento anche i casi di diabete di tipo 2 in età adolescenziale correlati con sovrappeso e obesità tra i più giovani. In questa terza puntata raccontiamo lo stato dell’arte su questa malattia, sia dal punto di vista delle conoscenze, che della terapia. Lo facciamo ancora una volta insieme a Lorenzo Piemonti, diabetologo presso l’Ospedale San Raffaele di Milano, dove è vice direttore dell’Istituto di Ricerca sul Diabete (DRI).

Una patogenesi complessa

“Sebbene abbia molto meno peso psicologico, per esempio rispetto al cancro, il diabete ha delle riduzioni dell’attesa di vita paragonabili a quelle del cancro al colon o alla mammella” ci spiega Piemonti. “Questo non per drammatizzare, ma per porre mente al fatto che di diabete si parla sempre come di una malattia non grave, mentre invece va tenuta sotto stretto controllo e va considerata fra le patologie che è nostra responsabilità, almeno in parte, prevenire attraverso il controllo del peso e l‘attività fisica.”

A differenza del diabete di tipo 1, il diabete di tipo 2 è una malattia molto complessa, e oggi sappiamo che può arrivare a coinvolgere diversi organi, fino a otto, non solo il pancreas. Per questa ragione, anche la patogenesi è più articolata rispetto al diabete di tipo 1: si va dall’alterazione degli ormoni nel tratto gastroenterico, al sistema nervoso centrale che regola appetito e metabolismo, alle patologie renali legate all’assorbimento degli zuccheri, fino a coinvolgere midollo e ossa. “Ebbene, il punto è che ognuno di questi ambiti patogenetici rappresenta un target farmacologico” precisa Piemonti. In altri termini: ognuna di queste malattie può essere curata con un proprio trattamento, che va a sommarsi con il deficit a livello pancreatico, rendendo la malattia fortemente invalidante se non viene tenuta sotto controllo.

Si deve parlare di prevenzione

Una importante differenza con il diabete di tipo 1 è che il diabete di tipo 2 si può prevenire. Certo, è necessario precisare che la possibilità di prevenire non significa la sicurezza di evitare la malattia: vi sono per esempio i fattori genetici da considerare. Tuttavia, la letteratura medica è concorde nell’affermare che vi siano dei fattori di rischio ben precisi che favoriscono l’insorgenza del diabete di tipo 2. Il primo è appunto quello genetico: il diabete di tipo due è sei volte più comune della media fra la popolazione del sud est asiatico e tre volte più comune fra le popolazione di origine africana.

Al di là dei fattori genetici, contro cui possiamo fare poco, è sullo stile di vita che è in nostro potere agire. In due parole: dieta e attività fisica. Sembra uno slogan pubblicitario, ma non è così. Una dieta che comprende molti carboidrati raffinati e grassi saturi ma povera di frutta e verdura contribuisce all’aumento di peso, accrescendo così il rischio di diabete. Fino all’80% dei nuovi casi di diabete di tipo 2 riguarda persone in sovrappeso o obese, e il rischio – rileva l’OMS – è il medesimo sia per le persone in sovrappeso che per quelle obese. Secondo gli esperti basterebbero 30 minuti di esercizio fisico moderato al giorno per 5 giorni a settimana per ridurre sensibilmente il rischio di ammalarsi di diabete di tipo 2.

A stare peggio è chi vive in situazioni economiche precarie. Come dimostrano diversi studi degli ultimi decenni, a partire dai noti studi Whitehall, le differenze economiche diventano anche disuguaglianze di salute. Chi ha meno disponibilità economiche ha una dieta meno sana, fa meno attività fisica, vive in ambienti meno salubri, si dedica meno alla prevenzione. L’80% dei casi di diabete si registrano infatti in paesi a basso reddito o nelle fasce meno abbienti della popolazione. Nel Regno Unito, per esempio, la prevalenza delle complicazioni da diabete è fino a tre volte superiore fra le fasce di reddito più basse rispetto a quelle più benestanti.

Aumentare lo zucchero nelle urine

Si chiamano Inibitori SGLT2 e sono una nuova classe di farmaci concepiti per la terapia del diabete, in particolare per ridurre la presenza di glucosio nel sangue agendo a livello renale. L’idea è quella di non riassorbire il glucosio filtrato dal rene e premettere che finisca nelle urine per essere espulso dal corpo del paziente. “Quello che gli scienziati hanno osservato recentemente è che l’inibizione di questo meccanismo ha anche ulteriori effetti positivi sui malati, perché abbassa la pressione e fa dimagrire” spiega Piemonti. “Ricordiamo che il sovrappeso è un fattore di rischio importante per i diabetici e ridurre la pressione sanguigna e il peso significa come conseguenza diminuire il rischio di malattie cardiovascolari, che sono un’aggravante seria della malattia.”

Questa nuova classe di farmaci, che ha mostrato effetti sorprendentemente positivi in termini di prevenzione degli eventi cardiovascolari, non è però esente da potenziali effetti collaterali, come emerge anche da una recente nota dell’AIFA del luglio 2015, che evidenzia “casi gravi di chetoacidosi diabetica, a volte con pericolo di vita, in pazienti in trattamento con inibitori SGLT2”.

“Definire meglio i dosaggi del farmaci e le loro combinazioni è un filone di ricerca importantissimo per il prossimo futuro, anche in relazione alla risposta individuale del paziente” precisa Piemonti. Targettizzare la terapia sul singolo malato è una delle maggiori sfide per la medicina moderna.

Esisterà presto una terapia definitiva?

Come avevamo spiegato nella puntata dedicata al diabete di tipo 1, anche qui le possibilità che i ricercatori stanno sondando sono diverse: dall’approccio tecnologico a quello biologico. Anche per il diabete di tipo 2 una strada che offre importanti opportunità è quella delle cellule staminali. Programmare cioè le cellule staminali in modo che si differenzino in cellule che producono insulina, da sostituire alle cellule del pancreas danneggiate dei malati di diabete. “Si tratta di ricerche che non sono ancora agli albori– precisa Piemonti –e al momento è in corso la fase 1/ 2 del trial negli Stati Uniti sul diabete di tipo 1, ma certamente, dati i risultati ottenuti finora, la consideriamo una strada maestra da battere per mettere a punto nel prossimo futuro una terapia definitiva per la cura del diabete.”

@CristinaDaRold

Leggi anche: Tutto ciò che c’è da sapere sul diabete di tipo 1

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.