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La trasmissibilità dell’Alzheimer

Per anni gli scienziati hanno cercato di capire l'origine del morbo di Alzheimer, ora alcuni studi individuano la possibilità di trasmissione tramite trapianto

La malattia di Alzheimer colpisce più di 20 milioni di persone nel mondo e rappresenta il 50-60% delle demenze. Crediti immagine: Neil Conwai, Flickr

APPROFONDIMENTO – Se ne era parlato lo scorso settembre e ora una ricerca pubblicata su Swiss Medical Weekly sembra confermare l’ipotesi: il morbo di Alzheimer potrebbe essere stato trasferito da uomo a uomo. La trasmissione sarebbe avvenuta tramite trapianto e non si tratterebbe in nessun caso di contagio diretto. La teoria suggerita da questi studi, se confermata, potrebbe aiutare a capire meglio come si sviluppa la malattia e avrebbe degli effetti sulle pratiche chirurgiche.

Cosa sappiamo

La malattia di Alzheimer colpisce tra i 23 e i 28 milioni di persone nel mondo e rappresenta il 50-60% delle demenze. In Italia i malati sono circa 600 mila. La malattia inizia a svilupparsi 10-20 anni prima che compaiano i sintomi. Da quel momento, l’aspettativa di vita è di 8-10 anni.

Sappiamo che l’insorgenza dell’Alzheimer è associata alla presenza di placche della proteina beta amiloide, ma le cause dell’accumulo sono, a oggi, sconosciute. La proteina beta amiloide, lunga dai 36 ai 43 amminoacidi, è un prodotto fisiologico del metabolismo dei neuroni. La sua funzione specifica non è nota, ma si pensa sia coinvolta nella formazione delle sinapsi e nella plasticità neuronale. La patologia insorge quando questi piccoli peptidi si aggregano tra loro e formano delle placche. Un secondo meccanismo è implicato nello sviluppo della malattia: la formazione di ammassi di proteina tau all’interno del neurone. Questi aggregati neurofibrillari portano a un cambiamento della struttura della cellula, fino a determinarne la morte. Quando il neurone muore, gli ammassi di proteina tau raggiungono nuove cellule, dove attivano una reazione a cascata.

Per anni gli scienziati hanno discusso su quale dei due meccanismi fosse in grado di innescare la malattia. Il fatto certo è che entrambi attivano un processo infiammatorio nel cervello, detto neuroinfiammazione. L’accumulo di cellule della microglia – un tipo di cellula coinvolta nella risposta immunitaria – è infatti un’altra delle caratteristiche distintive dell’Alzheimer. Queste cellule normalmente agiscono come difesa ma, nel caso della malattia, non riescono a svolgere il loro compito e a rimuovere le placche di proteina beta amiloide. Vengono infatti attivate in modo permanente e promuovono un’infiammazione cronica, che danneggia le funzioni cognitive.

La nuova ipotesi

Ricerche precedenti avevano già mostrato come l’infusione di estratti cerebrali di individui malati poteva causare la formazione di aggregati di proteina beta amiloide nel cervello di topi. Un numero crescente di studi condotti su modelli animali suggeriva, infatti, che la modalità di propagazione della proteina potesse essere simile a quella del prione che causa la malattia di Creutzfeldt-Jakob (MCJ). La prima evidenza di una possibile trasmissione da uomo a uomo risale invece a uno studio pubblicato lo scorso settembre su Nature. I ricercatori in questo caso avevano individuato la presenza di placche amiloidi in pazienti che avevano la MCJ e che anni prima avevano ricevuto somministrazioni di ormoni estratti da ipofisi di cadaveri.

Sulla base di queste evidenze, i ricercatori dell’Institute of Neuropathology dello University Hospital Zurich e dell’Institute of Neurology della Medical University di Vienna hanno voluto indagare la presenza di placche di beta amiloide in pazienti che avevano subito un altro tipo di pratica medica – il trapianto della dura madre, uno degli strati che compongono le meningi – e che avevano poi sviluppato la MCJ.

I ricercatori hanno utilizzato come controllo individui con la stessa malattia che non avevano però subito trapianti e hanno evidenziato come nei trapiantati la presenza di placche fosse molto più frequente. Aggregati di questa proteina sono infatti stati trovati sia nella materia grigia sia nei vasi sanguigni di 5 dei 7 pazienti. L’età dei 7 trapiantati era compresa tra i 28 e i 63 anni e lo sviluppo di placche di beta amiloide è rara in questa fascia della popolazione.

Secondo i ricercatori, la presenza di placche sembrerebbe quindi non essere casuale e potrebbe essere dovuta al trapianto. L’ipotesi è che la dura madre fosse contaminata con delle particelle, dei “semi” di beta amiloide, oltre che con la proteina prione che causa la MCJ. Non mancano spiegazioni alternative: come scrivono gli stessi autori dello studio, esiste infatti anche la possibilità che l’insorgenza delle placche sia dovuta alla stessa causa che aveva reso necessario il trapianto in un primo momento.

Tuttavia, come sottolineano i ricercatori, se la teoria dei “semi” venisse confermata, si dovrebbero considerarne gli effetti sulla pratica clinica. Anche se entrambe le procedure mediche indagate in questi studi non sono più utilizzate, sarebbe comunque necessario ripensare alcune pratiche generali, come la sterilizzazione degli strumenti e la preparazione di farmaci di origine biologica. Una teoria tutta da confermare, quindi, in un campo di ricerca – quello del ruolo di “semi” di proteine con struttura irregolare nelle malattie neurodegenerative – che offre molti spunti per studi futuri.

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Francesca Camilli
Comunicatrice della scienza e giornalista pubblicista. Ho una laurea in biotecnologie mediche e un master in giornalismo scientifico.