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Referendum trivelle: le ragioni del no

Le attività estrattive mettono a rischio l'ambiente e il turismo? Ecco come risponde chi sostiene le ragioni del no al referendum del 17 aprile

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Controlli efficaci e un aggiornamento ai progressi tecnologici potrebbero ridurre il rischio di incidenti legati alle attività estrattive in mare. Crediti immagine: tsuda, Wikimedia Commons

SPECIALE MARZO – Quello del prossimo 17 aprile è stato definito un “referendum politico” dagli stessi promotori. Tuttavia, il terreno su cui discutono i sostenitori dell’una o dell’altra parte è spesso quello tecnico-scientifico. Così come è successo con il nucleare negli anni scorsi, si parla di ambiente e dei possibili incidenti, si cerca di calcolare il danno economico che deriverebbe da una cessazione delle attività o si teme per perdite nel turismo, che nel nostro Paese rappresenta un settore cruciale.

Per comprendere le ragioni del no, abbiamo intervistato Etta Patacca, professore ordinario di geologia all’Università di Pisa, che in passato ha svolto attività di consulenza per numerose compagnie petrolifere italiane e straniere.

Vale la pena cercare e sfruttare giacimenti di gas e olio in Italia?

Decisamente sì. Nel nostro Paese ci sono sia zone con presenza di gas, come l’Adriatico, sia zone ricche in olio di buona qualità, come la Val d’Agri in Basilicata. E non mancano le competenze per sfruttare al meglio queste risorse.

Queste attività sono sicure?

Come nella gran parte delle attività industriali ci sono dei rischi, che dobbiamo cercare di ridurre al minimo. Possiamo fare un paragone con il referendum sul nucleare, vietato in Italia per paura di incidenti, mentre in tutta Europa si è continuato a costruire centrali. Oggi siamo costretti a comprare energia dalla Francia che la produce a pochi chilometri dal confine.

Con le perforazioni petrolifere c’è la stessa situazione: si temono incidenti e sversamenti di idrocarburi in mare quando nella parte croata dell’Adriatico, che è un mare chiuso, si svolgono attività di questo genere in modo intensivo.

Perché sarebbe auspicabile una vittoria del no?

Una vittoria del sì scoraggerebbe ulteriormente gli investimenti in Italia da parte delle compagnie petrolifere, che già si stanno dirigendo verso Paesi dove non c’è tutta questa opposizione per ottenere permessi per l’esplorazione e lo sfruttamento di giacimenti e dove la burocrazia è meno complessa. Si tratterebbe di un’occasione persa, da un punto di vista sia economico che scientifico. Non ci dobbiamo dimenticare che la scoperta di giacimenti di idrocarburi in Italia ha comportato benefici economici diretti attraverso l’erogazione di royalties destinate alle amministrazioni pubbliche e benefici economici indiretti attraverso un vasto indotto che ha favorito lo sviluppo di territori più poveri.

E da un punto di vista della ricerca?

Considerando il grave stato in cui versa la ricerca in Italia, i fondi erogati dalle compagnie petrolifere attraverso contratti con le università sarebbero delle vere e proprie boccate di ossigeno. La ricerca di base, infatti, può anche autofinanziarsi, secondo un modello che all’estero esiste già da diverso tempo.

Finanziamenti ad hoc, tra l’altro, permetterebbero anche di studiare e mettere a punto tecnologie più sicure e meno impattanti in attesa che, come tutti ci auguriamo, le fonti rinnovabili diventino un’alternativa realmente praticabile.

Le attività di esplorazione non porteranno un danno al turismo e al suo indotto?

Si tratta di paure infondate dal momento che questo non è mai successo. Le coste dell’Emilia Romagna, nei cui mari da decenni si svolgono queste attività, attraggono un numero di turisti tra i più alti della penisola.

E mi chiedo se possiamo affermare con certezza che un campo eolico o estesi impianti fotovoltaici siano meno impattanti a livello visivo di una piattaforma petrolifera in mare.

Oggi gas e olio made in Italy sono in grado di soddisfare meno del 10% del fabbisogno nazionale…

La storia geologica dell’Italia permette di ipotizzare la presenza di idrocarburi anche in zone dove oggi non esiste attività estrattiva solo perché quando decenni fa iniziò l’attività esplorativa, di solito non si prevedeva di dover perforare a profondità superiori a 4000-5000 metri. Tuttavia, con il passare degli anni, si è passati a operare in piena sicurezza anche a profondità più elevate. Se oggi ci fosse la volontà politica di proseguire nell’esplorazione in terra e in mare avremmo elevate probabilità di incrementare la produzione.

Se è giusto proseguire con le attività, qual è la strada da percorrere per scongiurarne gli effetti negativi?

Si dovrebbe continuare a fare tutto il possibile per mantenere la sicurezza, a partire dall’ambito legislativo. Con l’attuale tecnologia si può andare molto più in profondità rispetto a qualche decennio fa e le leggi dovrebbero adeguarsi in fretta ai progressi scientifici, garantendo sicurezza e rispetto dell’ambiente. E soprattutto, è fondamentale che ci siano i controlli per far rispettare le leggi.

C’è poi il tema del ripristino ambientale una volta terminate le attività di perforazione, sul quale si deve porre la massima attenzione.

Leggi anche: Il referendum sulle trivelle: alcuni dati sui giacimenti in Italia

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Viola Bachini
Mi occupo di comunicazione della scienza e della tecnologia. Scrivo su giornali e riviste, collaboro con case editrici di libri scolastici e con istituti di ricerca per la comunicazione dei risultati al grande pubblico. Ho fatto parte del team che ha realizzato il documentario "Demal Te Niew", finanziato da un grant dello European Journalism Centre e pubblicato in italiano sull'Espresso (2016) e in spagnolo su El Pais (2017). Sono autrice del libro "Fake people - Storie di social bot e bugiardi digitali" (Codice - 2020).