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Strategie salvavita per neonati prematuri: in Europa si può fare meglio

Meno del 60% dei bambini nati tra 24 e 31 settimane di gravidanza è assistito contemporaneamente con quattro pratiche salvavita di dimostrata efficacia

Quello che abbiamo visto è che la grande maggioranza dei bambini prematuri è assistito con almeno una delle pratiche salvavita. Il problema, però, è che solo il 58,3% dei prematuri è assistito con tutte e quattro le pratiche, riceve cioè l’assistenza considerata ottimale. Crediti immagine: tamakisono/Flickr

GRAVIDANZA E DINTORNI – Parto in una struttura appropriata, con reparto di terapia intensiva neonatale di terzo livello; somministrazione prenatale – via iniezione alla mamma – di farmaci corticosteroidi per promuovere la maturazione dei polmoni; prevenzione dell’ipotermia neonatale e somministrazione di surfattante, un complesso chimico che, di nuovo, promuove la funzionalità polmonare. Sono quattro strategie evidence-based, tutte di dimostrata efficacia, che negli anni hanno permesso di ridurre in modo significativo il rischio dei neonati prematuri di morire o di andare incontro a gravi malattie che ne possono compromettere definitivamente le condizioni di vita. Eppure, in Europa, meno del 60% dei bambini che nascono prima delle 32 settimane di gravidanza riceve un’assistenza completa di tutte queste pratiche. Il dato, emerso nell’ambito del progetto di ricerca europeo EPICE e pubblicato dal British Medical Journal, è tale da chiamare con forza a una riflessione su quanto si può fare per migliorare la situazione. Perché migliorare l’assistenza significa né più né meno che salvare vite umane e risparmiare gravi sofferenze a questi bambini e alle loro famiglie.

Per un anno, tra il 2011 e il 2012, i ricercatori del progetto hanno registrato tutte le nascite pretermine – in particolare tra 24 e 31 settimane di gravidanza – avvenute in tutti i punti nascita pubblici e privati di 19 regioni distribuite in 11 paesi europei. Per l’Italia, le regioni partecipanti sono state Lazio, Emilia Romagna e Marche. Poi sono andati a vedere, per ogni bambino, se avesse ricevuto o meno gli interventi di cui abbiamo parlato e quali sono stati i suoi esiti, in termini di sopravvivenza e di insorgenza di gravi condizioni quali emorragia o altri danni cerebrali, retinopatia, che può portare a cecità ed enterocolite necrotizzante, che può comportare la distruzione di parti dell’intestino.

“Quello che abbiamo visto è che la grande maggioranza dei bambini è assistito con almeno una delle pratiche salvavita che abbiamo preso in considerazione e cioè che, presi singolarmente, tutti gli interventi considerati sono largamente applicati”, spiega Marina Cuttini, epidemiologa prenatale dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, tra gli autori dello studio. “Per esempio: se sussistono le condizioni, e cioè se il parto non è del tutto improvviso, la somministrazione prenatale di farmaci corticosteroidi è davvero molto praticata. Ed è un intervento sicuramente importante, considerato che l’immaturità polmonare aumenta il rischio non solo di mortalità e di problemi respiratori ma anche di emorragia cerebrale, che può comportare conseguenze a lungo termine”.

Il problema, però, è che solo il 58,3% dei prematuri è assistito con tutte e quattro le pratiche, riceve cioè l’assistenza considerata ottimale. Un livello “sorprendentemente basso”, commenta un editoriale pubblicato sempre sul BMJ da un gruppo di neonatologi del Newborn research Centre dell’Università di Melbourne, in Australia. Che sottolineano però anche quanto sia comune, e non solo in neonatologia, la distanza tra le indicazioni che emergono dalla ricerca e la pratica clinica reale.

In concreto, questa mancata assistenza ottimale significa che alcuni bambini muoiono, e altri vanno incontro a malattie e condizioni potenzialmente devastanti. I ricercatori di EPICE hanno fatto qualche simulazione, scoprendo che se tutti i bambini prematuri presi in esame avessero ricevuto i quattro interventi salvavita considerati, la mortalità si sarebbe ridotta del 18%: sarebbero cioè morti 120 bambini in meno, mentre altri 65 si sarebbero evitati patologie gravi, in grado di condizionarne in modo significativo la salute futura.

Naturalmente, non tutte le regioni analizzate mostrano la stessa performance: in Estonia e in alcune aree del Regno Unito, per esempio, l’applicazione delle quattro strategie evidence-based supera il 75%, mentre nell’area di Lisbona si assesta intorno al 32%. Anche in Italia si notano delle differenze, con il 67,9% dell’Emilia Romagna e il 42,4% del Lazio (per le Marche il valore è il 51,5%).

Ma se è noto ormai da tempo che queste quattro pratiche sono importanti e funzionano, perché non sempre vengono messe in atto? “A volte, è solo perché è materialmente impossibile farlo” afferma Cuttini. “Se il parto avviene all’improvviso, è chiaro che non si può prevedere la somministrazione del ciclo completo di corticosteroidi (due iniezioni a distanza di 24 ore), e non è detto che la mamma abbia il tempo di raggiungere una struttura adeguata. Il che significa, per esempio, che il personale che accoglierà quel bambino potrebbe non avere l’esperienza necessaria per trattarlo – un conto è avere a che fare con un neonato di 3 kg, e tutt’altro dover intervenire su un bimbo di 800 grammi – e che sarà necessario trasportare, subito dopo il parto, un bambino che è davvero fragilissimo”.

Altre volte, invece, le cause potrebbero essere diverse, e decisamente più modificabili. Nell’articolo pubblicato sul BMJ si citano per esempio barriere organizzative come la mancanza di un protocollo scritto o di una leadership forte, in grado di coordinare al meglio il lavoro di équipe necessario per emergenze di questo tipo. E non è neppure da escludere il ruolo che potrebbero avere diverse convinzioni etiche nella scelta di intervenire o meno. “Anche se – precisa Cuttini – a partire dalle 24 settimane la tendenza è ormai quella di trattare tutti i bambini nati vivi”.

Per altro, sugli aspetti organizzativi va ricordato il fatto che i dati raccolti si riferiscono al 2011-2012. Da allora sono passati quattro anni, ed è possibile che la crisi economica di questo periodo abbia inciso negativamente e che oggi le condizioni siano anche peggiori. “Non abbiamo dati in proposito – commenta Cuttini – ma è possibile che i tagli al personale e la mancata sostituzione di chi va in pensione, con i conseguenti aumenti di carico di lavoro e di stanchezza, abbiano influito negativamente sulla qualità dell’assistenza”.

Insomma, fare meglio è possibile e doveroso. “Risultati alla mano, operatori sanitari e soprattutto amministratori di sanità pubblica sono chiamati a una riflessione su questa possibilità” sottolinea l’epidemiologa. “Probabilmente si può fare ancora molto per identificare le gravidanze a rischio e indirizzarle fin da subito in centri di terzo livello, o per organizzare reti di ospedali che sappiano reagire in modo tempestivo alle emergenze. Si possono mettere a punti nuovi protocolli di organizzazione dei servizi, da testare in appositi studi”.

Intanto, il lavoro prosegue anche su un altro fronte. Perché per ora sappiamo quanto le quattro pratiche salvavita fondamentali della neonatologia possano ridurre il rischio di mortalità e di grave malattia perinatale, ma non sappiamo ancora quali siano le conseguenze a lungo termine della loro applicazione (o mancata applicazione). Lo studio EPICE ha previsto di seguire i bambini fino a due anni di età, cosa che è stata effettivamente fatta: “Siamo al lavoro per analizzare i dati, e speriamo di pubblicare a breve i risultati” dichiara Cuttini. Inoltre, è appena partito un nuovo progetto europeo, chiamato SHIPS, che è la naturale continuazione di EPICE e prevede di valutare gli stessi bambini  a cinque anni di distanza. Per capire esattamente quali sono le loro condizioni e qual è la loro qualità di vita.

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance