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Centro oli di Viggiano: pronto a ripartire dopo il sequestro

Il COVA, l'impianto dove vengono trattati e desolforati gas e petrolio estratti in val d'Agri, è stato chiuso il primo aprile a seguito dell'inchiesta della DDA di Potenza ma potrebbe riaprire a settembre.

Dove verranno spediti i rifiuti del COVA e con quali codici CER? Domande che dovrebbero avere risposta non solo da parte dell’Eni, ma anche da parte di politica e magistratura al fine di dissipare le preoccupazioni e i sospetti legati all’imminente riapertura degli impianti.

ATTUALITÀ – Secondo il Presidente delle Regione Basilicata, Marcello Pittella, il Centro Olio di Viggiano (COVA), di proprietà dell’Eni, potrebbe riaprire già entro settembre, come ha dichiarato recentemente in un incontro con lavoratori e parti sociali a Villa d’Agri, dando il pieno appoggio della politica. La riapertura del COVA ha sollevato dubbi e polemiche e ha spinto a un’azione legale, contro la ripresa delle attività, il Comitato Tecnico-Scientifico per l’Ambiente e la Salute a Sud. Il comitato,  composto da geologi, medici e avvocati di recente costituzione ha presentato l’azione legale ieri pomeriggio a Potenza.

Il COVA è l’impianto dove vengono trattati e desolforati gas e petrolio estratti in val d’Agri prima di essere inviati alla raffineria di Taranto. Chiuso il primo aprile a seguito dell’inchiesta della DDA di Potenza che ha portato allo scandalo petrolgate, con le dimissioni del ministro Guidi, il COVA era finito al centro di forti polemiche e pressioni. L’inchiesta di cui si è occupata anche OggiScienza è divisa in due filoni: uno riguarda il giro di affari attorno al centro olio in costruzione di Tempa Rossa, l’altro il presunto smaltimento illecito di rifiuti dell’Eni nell’ambito delle attività di estrazione petrolifera in val d’Agri.

In particolare, le criticità riscontrate su emissioni gassose e trattamento dei rifiuti, classificati irregolarmente come non pericolosi, avevano portato al sequestro di due vasche nel COVA, del pozzo di reiniezione di Costa Molina 2 e dell’impianto di Tecnoparco. A seguito di ciò l’Eni era stata costretta a sospendere del tutto le attività estrattive in val d’Agri e a chiudere il COVA con notevoli ricadute economiche per la compagnia e per il territorio. La perdita d’introiti, infatti, supera i 2 milioni al giorno che si trasformano per la regione Basilicata in una perdita in royalties di oltre 250.000 euro al giorno. Oltre a ciò gli operai che lavorano nell’indotto del petrolio in val d’Agri sono tra i 1000 e i 2000 e al momento sono in cassa integrazione. Per una piccola regione ad altissima disoccupazione l’impatto economico dell’inchiesta è stato perciò devastante.

Non sorprende quindi che ci siano state richieste da parte di politica e sindacati di riavviare le attività al più presto. In una lettera datata 27 aprile, tuttavia, l’amministratore delegato Eni Descalzi aveva gelato tutti dichiarando “dal punto di vista tecnico e operativo non è possibile proseguire – nemmeno parzialmente – l’attività produttiva del Cova. Non esiste, infatti, una soluzione alternativa di tipo industriale che consenta di evitare la fermata degli impianti. Il Centro Olio dovrebbe essere parzialmente riprogettato dal punto di vista impiantistico e ingegneristico ed essere sottoposto a un nuovo iter autorizzativo, ipotesi del tutto irrealistica, sia dal punto di vista industriale che normativo”. La politica dell’Eni a seguito dell’inchiesta, definita un “suicidio aziendale” da Federpetroli aveva comprensibilmente suscitato forte allarme e preoccupazione nei politici e nei lavoratori. L’inchiesta, inoltre, aveva sollevato la purtroppo classica contesa tra difesa del lavoro e difesa della salute. Ambientalisti, medici e parte degli abitanti della val d’Agri, che denunciavano da anni irregolarità nelle attività dell’Eni, sono infatti scesi sul piede di guerra finendo per scontrarsi con chi di petrolio ci vive. La successiva mossa della DDA di acquisire migliaia di cartelle cliniche degli abitanti della zona non ha fatto che aumentare l’allarme, pur senza una formalizzazione dell’ipotesi di disastro ambientale.

Malgrado le parole di Descalzi, tuttavia, il 20 maggio, in un comunicato stampa dell’Eni sull’istanza di dissequestro presentata alla magistratura, si proponeva una soluzione alla questione dichiarando che “Eni nelle ultime settimane ha continuato a studiare ipotesi di soluzioni alternative, individuando la possibilità di apportare una modifica all’impianto in grado di determinare la separazione della produzione di gas da quella di olio e permettere di continuare nella reiniezione delle acque di strato, soluzione che non richiede variazioni dell’autorizzazione principale attualmente in essere”. Questa modifica secondo l’Eni avrebbe permesso in breve tempo la ripresa delle attività secondo i limiti imposti dalla magistratura. Il primo giugno tra le esultanze di alcuni e le preoccupazioni di altri la magistratura ha dato il via libera alle modifiche dissequestrando le due vasche del COVA e il pozzo di reiniezione per consentire le modifiche proposte dall’Eni.

In effetti, secondo quanto evidenziato dall’inchiesta, le criticità riscontrate nel COVA riguardano la gestione delle ammine, composti chimici affini all’ammoniaca e altamente inquinanti che vengono utilizzati soprattutto nel processo di desolforazione, ma anche per inibire la corrosione delle tubature. La loro non corretta gestione si ripercuoteva a cascata sul funzionamento dell’impianto, con sforamenti sulle emissioni di anidride solforosa e idrogeno solforato e nella produzione di rifiuti.

In particolare le acque di processo, estratte dalla lavorazione di gas e petrolio, risultavano contaminate da ammine e non potevano, a norma di legge, essere reiniettate. Dal documento sul funzionamento del COVA messo a disposizione dagli inquirenti si evince che l’utilizzo delle ammine è limitato al trattamento del gas. Il greggio che arriva dai pozzi, infatti, viene prima separato dall’acqua di strato assieme a cui fuoriesce. In seguito gli idrocarburi più pesanti (il petrolio) vengono separati da quelli leggeri (il gas) e ognuno segue delle lavorazioni differenti.

È nella separazione del gas dalle componenti solforose che vengono utilizzate le ammine, per tanto in ciò sembra trovare riscontro quanto affermato dall’Eni nel comunicato del 20 maggio, cioè sul fatto che la separazione dei processi di produzione di petrolio e gas possa consentire una ripresa della reiniezione. Senonché dallo schema di funzionamento si apprende che i due processi sono già separati e ad oggi non è evidente in cosa cambierà il processo di lavorazione e come verrà risolto della gestione delle ammine nella lavorazione del gas. Infatti le ammine, secondo lo schema, in ogni caso non avrebbero dovuto finire nell’acqua di processo e al di là di ciò nel comunicato non si fa nessuna menzione sui problemi che determinavano i continui e pericolosissimi sforamenti sulle emissioni. L’Eni, interpellata sulla questione, non ha purtroppo fornito chiarimenti, così come non li ha forniti sulla connessa questione di Tecnoparco. La magistratura, infatti, aveva evidenziato un cambio dei codici CER dei rifiuti, da pericolosi a non pericolosi, con un risparmio per l’azienda di circa 100 mln di euro l’anno. Così come il COVA anche Tecnoparco avrebbe necessitato di una modifica del progetto per funzionare a norma, ma queste modifiche ad oggi non ci sono. La questione quindi è: dove verranno spediti i rifiuti del COVA e con quali codici CER? Domande che dovrebbero avere risposta non solo da parte dell’Eni, ma anche da parte di politica e magistratura al fine di dissipare le preoccupazioni e i sospetti legati all’imminente riapertura degli impianti.

Leggi anche: Inchiesta sul petrolio in Basilicata: l’Eni sotto accusa

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Vincenzo Senzatela
Appassionato di scienze fin da giovane ho studiato astrofisica e cosmologia a Bologna. In seguito ho conseguito il master in Comunicazione della Scienza alla SISSA e ora mi occupo di divulgazione scientifica e giornalismo ambientale