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Non solo nori: come le alghe stanno conquistando il mondo

Il mercato globale annuo è stato stimato a circa 10 miliardi di dollari e oltre l'80% della produzione è a scopo alimentare. Ma gli scienziati avvertono: servono linee guida per una coltivazione nel rispetto dell'ambiente

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L’alga nori come la conosce la maggior parte di noi, nella cucina giapponese. Fotografia: Pixabay

APPROFONDIMENTO – Cibo e integratori, gel industriali, fertilizzanti e mangimi per animali ma anche biotecnologie, nutraceutica e farmaceutica: l’industria delle macro-alghe (seaweed) sta vivendo una rapida crescita in tutto il mondo. Il mercato globale annuo è stato stimato a circa 10 miliardi di dollari (in aumento dai 5,5-6 del 2003), superando quello degli a noi più familiari limoni e lime, ed è dominato da cinque generi: Saccharina, Undaria, Porphyra, Eucheuma e Gracilaria.

In molti paesi in via di sviluppo l’industria delle alghe è oggi la fonte di sostentamento di grandi fette di popolazione, spesso partendo da piccola scala come attività di tipo familiare: la Cina tra tutti produce la metà delle alghe oggi sul mercato, quasi 13 milioni di tonnellate, seguita dall’Indonesia con 6,5 milioni di tonnellate (27% della produzione globale) e ancora dalla Corea del Sud e dalle Filippine, dove secondo il The Bureau of Fisheries and Aquatic Resources sono almeno 12000 gli agricoltori che le coltivano.

In relativamente pochi decenni la coltivazione delle alghe si è fatta spazio all’interno dell’acquacoltura, ed è ben percepita anche perché non richiede l’utilizzo di fertilizzanti. Dove l’industria ittica langue e la popolazione ha scarso accesso ad altri tipi di sostentamento, sono stati gli stessi governi a incentivare questo settore, come ha fatto la Tanzania: a Zanzibar è stato istituito il Seaweed National day (Siku ya Mwani) grazie al supporto scientifico della Zanzibar Seaweed Cluster Initiative (ZASCI) della University of Dar es Salaam. Gli agricoltori hanno avuto un’occasione di incontro per confrontarsi sulla coltivazione e parlare delle sfide del settore e delle migliori pratiche. Attualmente, come riporta Flower Msuya della ZASCI, sono quasi 24000 le persone che lavorano in quest’ambito in Tanzania: più dell’80% sono donne e oggi le esportazioni ammontano a 13000 tonnellate. L’obiettivo è raggiungere le 20000 entro il 2020.

zanzibar raccolta alghe
Una bambina con le alghe che ha raccolto, a Zanzibar. Fotografia: Rod Waddington, Wikimedia Commons, CC BY-SA 2.0

Questo progressivo boom ha attirato l’attenzione della comunità scientifica, che chiede cautela: ora che le sue proporzioni sono quelle di un’industria multi-miliardaria, anche la “filiera dell’alga” dev’essere regolata con rigore. In modo da evitare errori e delineare da subito delle linee guida, che tengano conto anche dell’investimento economico degli agricoltori. Una comunità che vive di una singola coltivazione, infatti, corre un rischio enorme in caso di danni al raccolto. Come è successo proprio nelle Filippine tra il 2011 e il 2013, quando un batterio delle alghe -facile da individuare perché le sbiadisce- ha causato un danno quantificato in più di 300 milioni di dollari.

Serve un modello rigoroso (e attento all’ambiente)

Un rapido aumento della domanda significa la necessità di produrre di più, più in fretta, che porta con sé molti rischi fin dalle più semplici operazioni. Secondo 21 scienziati, che hanno appena firmato un documento dedicato proprio a questo tema (uno degli argomenti che verranno trattati allo IUCN World Conservation Congress a settembre), l’ambiente marino è in costante e crescente pressione da parte di vari settori. La competizione per gli spazi è accesa tra energie rinnovabili, industria ittica, acquacoltura, e necessita di rigoroso monitoraggio specialmente quando i vari settori entrano a contatto. Ad esempio quando le coltivazioni di alghe diventano nursery per pesci, una sorta di “asilo nido” per gli avannotti delle specie allevate, e contribuiscono a filtrare i nutrienti emessi dagli animali e a ridurre l’eutrofizzazione (ciò che avviene quando l’acqua si arricchisce troppo di nutrienti, come accade in fiumi o laghi molto inquinati, con il conseguente degrado dell’ambiente per mancanza di ossigeno).

La necessità di coltivare di più e più rapidamente potrebbe far cadere gli agricoltori nella facile trappola di avvicinare le reti di coltura, una pratica che rischia di favorire la trasmissione di patogeni e parassiti ma anche di ridurre la diversità genetica. I parametri più importanti per regolare della crescita delle alghe sono la qualità e quantità dei nutrienti, la luce, il pH, la temperatura e la salinità: tenerli sotto controllo e insieme dover aumentare la produzione (in un momento di grande richiesta, sotto il crescente interesse nei confronti delle aree costiere coltivabili) rischia di incentivare pratiche illegali come l’uso di alghicidi e pesticidi. Con conseguenze negative sull’ambiente marino circostante.

Allo stesso tempo l’industria delle alghe, se regolata, è davvero un’ottima opportunità. Secondo i firmatari delle linee guida ha indirettamente contribuito a ridurre l’over-fishing in molte regioni, fornendo una valida alternativa alle popolazioni che vivono sulla costa. In alcuni casi, questa nuova possibilità di lavoro ha permesso alle donne di diventare economicamente attive per la prima volta.

In Cile, dove secondo i dati Food and Agriculture Organization (FAO) il 47% della popolazione rurale è sotto la soglia di povertà e 34 milioni di persone vivono nell’insicurezza alimentare, il mercato delle alghe dà lavoro a circa 30000 persone, gran parte delle quali sono donne. Non è stato un caso il commento dell’ex-presidentessa del Cile Michelle Bachelet, che alla conferenza FAO del 2015 ha detto “Women hold the keys to food security” [Sono le donne la chiave per la sicurezza alimentare].

Alghe, i bastoncini di pesce del futuro? 

In Cile, le alghe dei generi Ulva e Durvillaea (rispettivamente note coi nomi di cochayuyo e luche) sono da sempre utilizzate nella cucina, previste anche in alcune ricette per le famose empanadas e nella ceviche di frutti di mare o pesce. Ma le alghe nel piatto di ogni giorno, nel mondo, sono tutto fuorché una rarità.

Oltre l’80% della produzione di macro-alghe del pianeta, infatti, è proprio destinata al consumo alimentare. Quello che resta diventa un additivo per i mangimi animali o viene usato come fertilizzante, o viene impiegato in ambito medico oppure biotecnologico. Gli alginati, polisaccaridi ampiamente presenti nelle pareti cellulari delle alghe brune, sono usati come addensanti e stabilizzanti nell’industria alimentare, farmaceutica e cosmetica. Le alghe più famose sono la nori (specie del genere Porphyra), la wakame (Undaria pinnatifida) e la kombu (Laminaria japonica), ma anche la nota alga spirulina -un genere di cianobatteri- usata come integratore alimentare.

kelp alghe coltivazione
Kelp (ordine Laminaria) fotografato a Hazards Bay, Freycinet National Park, Tasmania. Fotografia di Bjørn Christian Tørrissen, Wikimedia Commons, CC BY-SA 3.0

Le alghe crescono rapidamente, ma come ogni altra risorsa del pianeta non sono infinite. E laddove coltivarle significa in realtà raccoglierle in natura, il problema si è fatto urgente: prelevarle indiscriminatamente significa privare l’ecosistema del loro ruolo ecologico di substrato e habitat per numerose specie, compromettendone l’equilibrio. “È possibile che il sovra-sfruttamento di alghe porti a importanti conseguenze ecologiche, economiche e sociali. Sia a livello locale che regionale, ma anche su scala globale”: è l’opinione di un gruppo di scienziati, che sul Journal of Applied Phycology ha analizzato il mercato con un focus particolare su paesi dell’America Latina come Brasile o Peru, dove il modello consiste proprio nella raccolta di alghe in natura. Una raccolta che può contare sulla preziosa biodiversità locale, che per una percentuale compresa tra il 4.9 e l’8.7% è fatta proprio di alghe.

Se le alghe sono destinate a diventare una risorsa economica preziosa, nonché, pensando ai paesi occidentali, una futura potenziale moda (un po’ come l’avocado) a un certo punto ragionare su un efficace e sostenibile modello di raccolta e coltura non sarà un optional, ma il minimo sindacale. A dire la verità lo è già. Infatti c’è già chi ha il problema di rifornirsene, perché vanno a ruba: è Bren Smith, che partendo dal Connecticut (USA) è riuscito a rendere ricercate le alghe laminariali, più conosciute come kelp, coltivandole con un modello particolare di sua invenzione che gli ha fruttato, per grado di innovazione e sostenibilità, un riconoscimento alla Clinton Global Initiative meeting e un premio di $100,000 dal Buckminster Fuller Institute.

Nelle sue foreste sottomarine, Smith ha ricreato dei piccoli ecosistemi: le strutture sulle quali cresce il kelp (un sistema a colonna che ha chiamato “3D farming”) ospitano cozze, capesante, vongole e ostriche, un vero tripudio di molluschi che prospera in un “campo” che non ha alcun bisogno d’essere fertilizzato, ma produce tra le 30 e le 60 tonnellate di alghe ogni anno. Alghe che sta progressivamente portando nei ristoranti e bar degli Stati Uniti, con l’ambizioso obiettivo di renderle sempre più appetibili. Chi non mangerebbe un gustoso piatto di noodles fatti con le alghe?

Grazie al loro valore nutritivo, Smith è piuttosto convinto che le alghe saranno una delle principali fonti di proteine dei decenni a venire, ma anche uno degli alimenti più economici. I bastoncini di pesce del futuro, così le chiama, perché “È quella la direzione in cui stiamo andando”, ha raccontato in una bella intervista al New Yorker, “la domanda è, saranno qualcosa di delizioso o saranno il nuovo olio di fegato di merluzzo?”.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Olio di palma sostenibile: è possibile?

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".