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Perché la ricerca di base sull’autofagia si è meritata il Nobel

Grazie alle ricerche condotte da Ohsumi e colleghi oltre 20 anni fa, oggi sono in atto nuovi studi per modulare l'attivazione dell'autofagia nel caso di cancro e malattie neurodegenerative.

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L’autofagia è un meccanismo cellulare utilizzato anche dalle cellule tumorali in risposta alla chemioterapia. Crediti immagine: National Institutes of Health

APPROFONDIMENTO – In molti alla vigilia dell’assegnazione del premio Nobel per la medicina avevano scommesso su CRISPR/Cas9, mentre a sorpresa il consesso svedese ha premiato gli studi sull’autofagia, scegliendo come rappresentante di questo ambito di ricerca il giapponese Yoshinori Ohsumi. Il suo laboratorio per primo nel 1993 studiò il fenomeno dal punto di vista genetico, individuando nei lieviti alcuni geni che si sono rivelati determinanti per la regolazione dell’autofagia. Un’intuizione che ha poi aperto la strada negli anni successivi a ulteriori ricerche che hanno evidenziato le profonde analogie fra l’autofagia nei lieviti e nei mammiferi.

Ma perché – viene da chiedersi – proprio oggi, a distanza di oltre 20 anni dalle ricerche di Oshuni, e in un momento in cui le frontiere del paradigma medico si stanno concentrando su temi come la terapia genica o la medicina personalizzata, si è scelto di premiare quella che di fatto è una ricerca di base, e nell’ambito di un fenomeno come l’autofagia, noto da almeno 50 anni?

La risposta è che l’autofagia è risultata un meccanismo chiave nell’invecchiamento cellulare e nella patogenesi di diverse malattie, che rappresentano le sfide del XXI secolo: il cancro e le malattie neurodegenerative come il Parkinson. Grazie alla via aperta da Ohsumi è stato possibile identificare ben 35 geni ATG, deputati all’attivazione del processo autofagico, ed è cosa nota che una volta identificati i responsabili genetici di un determinato meccanismo è possibile studiare dei metodi per riuscire a controllare il processo in questione. In questo caso “accendere e spegnere” l’autofagia e quindi intervenire nei processi coinvolti nella carcinogenesi o nell’evoluzione delle malattie neurodegenerative.

Facciamo un passo indietro. Il simbolo attraverso cui spesso l’autofagia viene rappresentata è l’ouroboros, un simbolo antichissimo che raffigura un serpente (o un drago) che si morde la coda. Un cerchio che non ha né inizio né fine. Autofagia significa infatti “mangiare se stessi”, e identifica quel processo cellulare secondo il quale la cellula è in grado, in condizioni di stress (per esempio durante la chemioterapia) o quando subisce dei danni, di eliminare alcune sue parti divenute dannose, dopo averle inglobate in speciali vescicole chiamate lisosomi. In questo modo essa può eliminare rapidamente ciò che lo stress ha danneggiato, riciclare il materiale ottenuto dalla degradazione per utilizzarlo per una nuova sintesi in situazioni di emergenza o rimuovere corpi estranei all’interno della cellula, per esempio nel caso di infezioni.

Si tratta di un fenomeno che può essere positivo per alcuni versi, ma negativo per altri e per questo sarà fondamentale in futuro riuscire a capire come indurlo o inibirlo. Nel caso delle malattie neurodegenerative, per esempio, si ritiene che l’autofagia rappresenti un fenomeno positivo, da “accendere”, poiché sarebbe una risposta di tipo neuroprotettivo, per eliminare sostanze divenute dannose. Più efficiente è l’autofagia, più l’invecchiamento cellulare risulta rallentato.

Il ruolo dell’autofagia nelle cellule tumorali in risposta agli agenti citotossici è ancora poco chiaro e molto dibattuto. In condizioni di stress – come quello indotto dalla chemioterapia – la cellula mette in atto meccanismi di difesa autofagici, che sembrerebbero renderla più resistente agli effetti antitumorali dei farmaci. Riuscire farmacologicamente a modulare la risposta della cellula nel suo momento di massima fragilità, cioè quando sta formando metastasi – ha sottolineato ieri Piergiuseppe Pelicci, direttore Ricerca dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano – potrebbe essere determinante per fermare questo processo. Tanto che diversi studi clinici sono attualmente in corso per testare inibitori dell’autofagia come mezzo per superare la resistenza ai farmaci chemioterapici.

@CristinaDaRold

Leggi anche: Il Nobel per la medicina 2016 a Yoshinori Ohsumi

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.