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Il cervello si può allenare come un muscolo?

L'idea alla base del brain training è che allenarsi in un compito specifico possa migliorare le nostre abilità anche in contesti più generalisti. Ma il trasferimento di conoscenza è davvero così facile? Ne parliamo con Daniel Simons

cervello brain training
Uno degli aspetti meno chiari dei compiti cognitivi è come -e se- i miglioramenti ottenuti in uno specifico esercizio vengano trasferiti ad altri ambiti (vicini o lontani). Ovvero la scienza del transfer

APPROFONDIMENTO – Nel 2015 SharpBrains stimava per il mercato della digital brain health, meglio conosciuto come brain training, un valore di 1,3 miliardi di dollari. Destinato ad aumentare senza sosta e superare, con le vendite previste per il 2020, i 6 miliardi di dollari di introiti. Ma cos’è davvero il brain training, perché ci piace così tanto e soprattuto: funziona davvero?

Appena un anno prima due gruppi di scienziati hanno detto la loro con delle lettere aperte pubblicate online. La prima, con oltre 70 firmatari, sosteneva che le prove scientifiche a sostegno del brain training erano insufficienti, soprattutto per poter dichiarare che previene o rallenta il declino cognitivo. Nella seconda, invece, 127 tra ricercatori e terapisti sostenevano che la letteratura era piena di studi più che validi: il brain training non migliorava solo l’abilità nello svolgere il compito specifico in cui ci si era cimentati, ma aumentava le capacità cognitive anche in altri ambiti della vita di tutti i giorni.

Questo diverbio non deve certo aver contribuito a chiarire le idee ai consumatori, ma si è sopito per poi riaccendere l’interesse a gennaio di quest’anno, quando la Federal Trade Commission statunitense ha multato per pubblicità ingannevole Lumos Labs, una delle aziende leader del brain training con il suo Lumosity, proprio per mancanza di studi scientifici adatti a supportare le affermazioni di vendita. La penale prevista si è ridotta da 50 milioni di dollari a 2, ma ha vincolato le aziende a giustificare con studi scientifici qualsiasi affermazione riguardo ai risultati dei programmi di brain training.

Come è possibile dunque che non ci sia un consenso, se la letteratura a disposizione è così folta e il mercato -guidato da Lumos Labs, Posit Science, Nintendo e Cogmed- non fa che espandersi? Una delle risposte è che, nonostante Brain Age (Nintendo, 2005) sia convenzionalmente riconosciuto come il primo “vero” brain training, arrivati al 2014 il settore non era ancora stato soggetto a una revisione rigorosa per qualità e quantità, che valutasse anche quanto era stato impiegato il “gold standard” della ricerca scientifica. Studi in doppio cieco, randomizzati e controllati per l’effetto placebo, in modo da escludere che le aspettative sugli effetti del brain training potessero influenzare i risultati.

A colmare questa lacuna ha pensato il gruppo di ricerca guidato da Daniel Simons, professore al Department of Psychology and the Beckman Institute for Advanced Science and Technology della University of Illinois, lavorando su oltre 132 paper peer reviewed citati dai firmatari della seconda lettera e/o identificati da Sharp Brains perché menzionati come prove scientifiche dalle aziende di settore. I risultati sono stati pubblicati su Psychological Science in the Public Interest, dove l’intero studio si può leggere gratuitamente.

Innanzitutto parlare di brain training significa usare un termine di marketing, mentre i ricercatori chiamano i programmi cognitive training, allenamento cognitivo. La logica alla base è l’idea del cervello come muscolo, un organo che si può allenare come in palestra alleniamo i bicipiti o gli adduttori. “Non sono un fan di quella metafora perché implica che l’allenamento verrà trasferito. Se ti alleni per aumentare la forza delle braccia, potrai servirtene in vari contesti”, spiega a OggiScienza Daniel Simons, “mentre la nostra review della letteratura mostra che non ci sono prove convincenti a sostenere che esercitarsi in un compito cognitivo migliori quella specifica abilità cognitiva in maniera più generale”.

Le connessioni all’interno del cervello sono complesse, ma allo stesso tempo si tratta di un organo altamente specializzato. “Tutti i programmi di brain training portano a un miglioramento nel compito in cui ci si è allenati”, prosegue Simons, “se fai pratica in qualcosa, migliori. Il che non è sorprendente o controverso in alcun modo. È semplice apprendimento e non lo mettiamo in discussione. Il punto è se fare pratica e migliorare in un compito possa migliorare le performance anche in altri. Questa è l’affermazione controversa”.

Un risultato chiave considerando che i programmi di brain training puntano a migliorare le capacità cognitive oltre il compito specifico che si svolge nel training in sé, ovvero di consentire un transfer della conoscenza ad ambiti ben meno specifici come il lavoro oppure la scuola, aumentando ad esempio la capacità di concentrazione o di comprensione del testo. In realtà come e quando sfruttiamo ciò che abbiamo imparato è una questione non del tutto risolta, anche se -scrivono Simons e colleghi- le teorie moderne consentono simulazioni che ci permettono di prevedere quando il transfer potrà verificarsi e quando no.

Quando ci sono evidenze che si è verificato, solitamente accade tra compiti cognitivi molto simili tra loro anche per contenuto (near transfer, opposto di far transfer). “Ma questo non significa che il transfer avviene sempre. Spesso l’allenamento non viene trasferito a compiti estremamente simili, perché tende ad avere un effetto specifico e circoscritto”, spiega Simons. Un buon esempio è uno studio condotto proprio su Brain Age: le performance aritmetiche dei partecipanti non erano migliorate nonostante il programma fosse concentrato specificamente sul calcolo.

Uno degli ostacoli è che impostare uno studio sul brain training non è banale. Immaginiamo un trial che voglia valutare l’efficacia di un farmaco: un gruppo di pazienti riceverà il farmaco mentre l’altro una caramella senza alcun effetto. Se il trial è condotto in doppio cieco, né i partecipanti né i ricercatori sanno chi sta assumendo il farmaco e chi il placebo, in modo che i risultati non vengano influenzati dalle aspettative degli uni o degli altri. Se uno o l’altro gruppo trarrà benefici dal trattamento, l’unica possibile spiegazione sta nell’efficacia del farmaco stesso. Come ricreare le stesse condizioni in uno studio sul brain training?

Se trascorro 10 ore ad allenarmi su un compito legato alla memoria di lavoro (working memory, considerata una delle funzioni cognitive più “a rischio” con l’invecchiamento) so che sto esercitandomi su un compito legato alla memoria di lavoro. Dunque mi aspetterò dei miglioramenti. Se passo lo stesso numero di ore a guardare dei DVD, come hanno fatto i partecipanti “placebo” di alcuni studi esaminati da Simons e colleghi, so che ho trascorso dieci ore di fronte a un DVD. Sostanzialmente, in entrambi casi so quale pillola ho preso e avrò aspettative diverse. Un gruppo di controllo classicamente inteso non è possibile e le aspettative sono soggette a un sacco di fattori: i messaggi sul brain training promossi da media e aziende, la mancanza di un consenso tra scienziati e addirittura l’età.

Gli anziani ad esempio si aspettano più benefici dal brain training rispetto agli adulti, un’aspettativa quantificata dallo studio Do you believe in brain training? pubblicato su Behavioural Brain Research a fine 2015. Il che li rende ancora più suscettibili a un marketing che alluda alla possibilità di ritardare il declino cognitivo, ventilando gli spettri della demenza senile e dell’Alzheimer.

“La letteratura sul brain training è soggetta a molte delle problematiche che affliggono la scienza in generale, non solo la psicologia. È raro che gli studi di intervento [studi che valutano gli effetti di un trattamento, in questo caso del brain training] vengano replicati in modo diretto, in parte per via dei costi. Per le stesse ragioni, molti coinvolgono un numero troppo esiguo di partecipanti per pensare di ottenere evidenze affidabili e convincenti. Molti studi, inoltre, non hanno un piano di analisi preciso e pre-registrato [ad esempio sul portale ClinicalTrials.gov], il che comporta troppa flessibilità nel modo in cui analizzano e riportano i loro risultati”, conferma Simons.

Molte delle pubblicazioni, scrivono Simons e colleghi, riguardano lo stesso campione di partecipanti. Se uno studio non è stato pre-registrato e non chiarisce in modo esplicito tutti i risultati che andrà a misurare, questi diventano statisticamente difficili da interpretare. Se gli autori non dicono da subito che più di un paper è basato sullo stesso gruppo di persone (dunque sulla medesima intervention), chi legge potrebbe pensare che si tratti di esperimenti separati e indipendenti, dunque avere l’impressione di un’efficacia maggiore.

La questione del gruppo di controllo è particolarmente spinosa, perché attività come guardare DVD non possono essere considerate un valido equivalente. Seppur attive, ovvero compiti che richiedono di fare qualcosa, “non sono alla pari nelle aspettative di miglioramento”, dice Simons. “Immaginiamo di assegnare un gruppo di partecipanti a completare 50 ore di addestramento su un compito mnemonico molto difficile, in laboratorio, mentre l’altro si dedica alla visione di DVD educativi. A quel punto chiediamo a entrambi i gruppi di cimentarsi in un altro compito complesso al computer. Quale ci aspettiamo ottenga i risultati migliori? Il primo gruppo si aspetterà di essere migliorato molto di più, ma se le aspettative sono diverse lo sarà anche la motivazione nell’impegno”. Per di più i ricercatori sono perfettamente consapevoli di chi ha fatto cosa, dunque si aspetteranno maggiori miglioramenti nel primo gruppo. “Specialmente se si tratta del loro studio!”.

A mancare sono quindi un vero consenso tra gli scienziati e studi ben progettati sul quale costruirlo. Ma potremmo dire che l’idea del brain training racchiude un qualche potenziale e che ha “solo” bisogno di essere valutata con indagini scientifiche impostate meglio? “Di certo servono studi progettati meglio per fornire prove convincenti. Ma se quegli studi saranno in grado di fornirle, le prove convincenti, non è chiaro. Non penso che siamo in grado di dire se esista o meno un potenziale, perché chi sostiene il brain training sarà comunque più ottimista al riguardo rispetto agli scettici. Quello che possiamo dire è che, a oggi, di evidenze stringenti non ce ne sono. Il fatto di vederci un potenziale, in assenza di evidenze, dipende più dall’opinione che si ha sulla teoria del transfer e da come si valutano le prove in letteratura”, conclude Simons. “Nel nostro studio non ci esprimiamo al riguardo, ma riteniamo che in futuro gli studi dovranno adeguarsi alle buone norme [della ricerca scientifica] in modo da fornire prove convincenti a favore o contro l’efficaci di questi prodotti per l’allenamento”.

@Eleonoraseeing

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".