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Quanto erano estesi i ghiacci artici in passato?

Un gruppo di ricercatori ha trovato il modo di ricavare l'estensione della calotta artica dalle carote di ghiaccio estratte in Groenlandia

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Studiando i ghiacci in Groenlandia è stato possibile stimare l’estensione della calotta glaciale artica nel passato. Crediti immagine: Greenland Travel, Flickr

AMBIENTE – L’estensione della calotta glaciale artica è davvero ai minimi di sempre dalla fine dell’Era glaciale? Fino ad oggi era impossibile rispondere a questa domanda. Una collaborazione internazionale, che ha visto una significativa partecipazione dei ricercatori dell’università Ca’ Foscari di Venezia, è riuscita però a trovare il modo di stimare l’estensione del ghiaccio marino nel passato. I risultati pubblicati sulla rivista Scientific Reports sembrano indicare che in passato l’estensione dei ghiacci artici sia stata addirittura minore di quella attuale. Secondo gli autori della ricerca però questo risultato non ci può nient’affatto tranquillizzare, perché con l’attuale riscaldamento la ritirata della calotta polare andrà ancora avanti.

Che il clima dell’artico abbia subito variazioni notevoli in passato è cosa nota. Nel periodo caldo medievale, che raggiuse il suo apice attorno all’anno 1000, per esempio, le temperature della zona furono tali da permettere ai vichinghi la colonizzazione delle coste sud occidentali della Groenlandia. Quando successivamente verso la metà del XIV secolo la temperatura cominciò a diminuire, il clima della zona divenne più inospitale, tanto che gli insediamenti vichinghi furono progressivamente abbandonati.

La storia e i ritrovamenti archeologici quindi ci possono dare alcuni indizi sul clima del passato, ma non possono fornirci dati precisi su come siano variate di anno in anno le temperature o l’estensione della calotta polare, soprattutto se si vuole risalire più in dietro nel tempo. La chiave per ricostruire questi dati tuttavia c’è, e si trova sempre in Groenlandia. Non sulle coste questa volta, ma nell’interno, sull’enorme plateau di ghiaccio che ricopre quasi interamente l’isola e che raggiunge fina a 3 chilometri di spessore. Qui infatti la colonna di ghiaccio, formata dal succedersi di anno in anno delle nevicate, conserva tracce del clima e degli eventi di quando la neve si è deposta. Con l’estrazione di carote di ghiaccio dal plateau è così possibile viaggiare indietro nel tempo, ripercorrendo i vari strati di deposizione fino a 120 000 anni fa e ritrovando per esempio le tracce delle maggiori eruzioni vulcaniche. Un’altra informazione preziosa viene poi dalle minuscole bolle d’aria che rimangono intrappolate nel ghiaccio. Queste infatti conservano la composizione dell’atmosfera di quando si sono formate, e permettono di misurare i valori di ossigeno o di anidride carbonica del passato. I dati hanno ampiamente confermato che gli attuali valori di anidride carbonica sono i più alti che si misurano nell’intera colonna di ghiaccio. Nelle carote però si cela anche un’altra fondamentale informazione: la temperatura. Per ricavarla è necessario individuare quali parametri atmosferici variano con essa. La composizione chimica tuttavia in questo caso non basta. Si sa per esempio che la concentrazione di anidride carbonica ha un andamento stagionale, ma questo non dice nulla sulla temperatura. Si ricorre così alla composizione isotopica.

Di che cosa si tratta? Ogni elemento chimico, in natura, può avere più di una forma stabile. Se il numero di protoni nel nucleo è fisso, il numero di neutroni può variare di qualche unità. L’idrogeno – che ha un protone – ha tre forme stabili, rispettivamente con 0, 1 o 2 neutroni. Queste forme si chiamano isotopi e vengono identificate dal numero di massa, ovvero dal numero di protoni sommato a quello di neutroni (che per i tre isotopi stabili dell’idrogeno vale quindi 1, 2 o 3). Anche l’ossigeno ha tre isotopi stabili con numero di massa rispettivamente 16, 17 e 18. L’ossigeno-16 è l’isotopo più abbondante (il 99,762% degli atomi di ossigeno sono di questo tipo), mentre l’ossigeno-18 è molto meno abbondante (0,2%) e il terzo isotopo è rarissimo (0,038%). Naturalmente un atomo di ossigeno-18 è più pesante di uno di ossigeno-16, e lo stesso vale per le molecole d’acqua che forma. Di conseguenza, le molecole che contengono l’isotopo di ossigeno più leggero evaporano un po’ più facilmente rispetto a quelle con l’isotopo più pesante, e questa differenza si fa sentire specialmente a basse temperature, quando l’acqua fa più fatica a evaporare. Questo implica che il rapporto tra gli isotopi dell’ossigeno nel vapore acqueo cambi leggermente con la temperatura: quando è più freddo l’ossigeno-18 è meno abbondante, quando è più caldo invece aumenta.

La neve che di anno in anno si deposita sulla calotta groenlandese conserva perciò il rapporto tra gli isotopi dell’ossigeno del vapore da cui si è condensata, e questa osservazione permette di risalire alla temperatura. Grazie a questo fenomeno è possibile individuare chiaramente la variazione stagionale tra estate e inverno, cosa che permette di contare gli anni man mano che si legge la carota di ghiaccio. Al di là delle normali variazioni stagionali, gli scienziati possono anche ricavare gli andamenti di lungo periodo, ricostruendo così le temperature del passato.

Questa informazione però in realtà non ci dice nulla sull’estensione della calotta polare artica. Questa infatti è formata da ghiaccio marino che si scioglie parzialmente in estate per poi riformarsi in inverno. Sappiamo che nello scorso secolo era molto più spessa ed estesa, ma dati precisi li abbiamo solo dagli anni Settanta, da quando cioè sono cominciate le misurazioni satellitari. La ritirata del ghiaccio al Polo Nord sta aprendo la regione alla navigazione e allo sfruttamento, ma sta anche minacciando gravemente l’ecosistema. Tuttavia per quantificare con precisione il fenomeno bisognerebbe avere la possibilità di ricostruire l’andamento dei ghiacci marini molto più in dietro del 1970. Una collaborazione internazionale formata da danesi, italiani, spagnoli è giapponesi è però riuscita a trovare un modo per ricavare quest’informazione. La risposta, però, ben lontana dall’oceano, si trova sempre nei ghiacci groenlandesi. I ricercatori della Ca’ Foscari e del Niels Bohr Institute (Danimarca) hanno infatti scoperto che in quei ghiacci, tra le molte informazioni, si trovano anche le tracce chimiche del ghiaccio marino.

Come spiega infatti in un comunicato Andrea Spolaor, ricercatore della Ca’ Foscari di Venezia “nelle carote di ghiaccio della Groenlandia si può misurare la quantità di un elemento chimico chiamato bromo. Questo si trova sia nell’oceano, sia nel ghiaccio marino, ma quando si forma nuovo ghiaccio in inverno, il sale marino si concentra in piccole sacche di acqua salata che contengono bromo. In primavera e in estate la luce solare che brilla sul ghiaccio marino innesca reazioni chimiche. In queste reazioni l’ozono presente nell’aria reagisce con il bromo nel ghiaccio che viene così rilasciato in quantità sempre più grandi nell’aria. Questo processo è chiamato esplosione del bromo. Quando viene rilasciato dal ghiaccio marino, il bromo concentrato è trasportato dal vento sopra la calotta groenlandese e depositato dalla neve che cade. Questa è la sorgente del bromo che misuriamo nelle carote di ghiaccio. Le reazioni si bloccano in autunno e in inverno quando il sole scende al di sotto dell’orizzonte e il mare comincia a ghiacciarsi di nuovo”

Naturalmente non basta misurare il bromo nei campioni per sapere quanto ghiaccio marino c’è. Per mettere in relazione queste due quantità, allora, i ricercatori hanno usato i dati satellitari, confrontando così la quantità di bromo negli strati di ghiaccio degli ultimi 46 anni con le misure dell’estensione della calotta artica. Gli scienziati però hanno deciso di non limitarsi ai satelliti. Le registrazioni delle comunità dei pescatori islandesi, infatti, contengono molti indizi sulla quantità di ghiacci polari e permettono di risalire indietro nel tempo di più di mille anni. Combinando queste informazioni i ricercatori sono così riusciti a stimare quanto ghiaccio marino ci fosse nel passato.

“Con questa tecnica siamo in grado di colmare le nostre lacune sulla quantità di ghiaccio marino artico nel passato. Dato che le carote di ghiaccio rivelano anche molte informazioni sul clima, è possibile combinare i dati sul ghiaccio marino con i dati sul clima e cominciare così a capire come reagisce il ghiaccio marino ai cambiamenti climatici” continua Paul Vellelonga, professore associato del Niels Bohr Institute.

Combinando i dati con quelli dell’ossigeno-18 I ricercatori hanno trovato che circa 8000 anni fa c’è stata una fase in cui la calotta polare in estate era meno estesa di adesso e questo è avvenuto in corrispondenza di un periodo in cui le temperature dell’artico erano 2-3 gradi più alte rispetto ai valori attuali.

Secondo Vallelonga quindi “ci siamo già trovati in questa situazione, con meno ghiaccio marino e più oceano aperto durante la calda estate artica. Perciò al momento non abbiamo ancora superato i limiti naturali dell’Artico, ma la questione è: con un riscaldamento ancora maggiore dovuto all’aumento dei gas serra, in quanto tempo lo scioglimento del ghiaccio marino raggiungerà e supererà i livelli di 8000 anni fa? I risultati di questa ricerca in combinazione con i modelli climatici possono aiutarci a rispondere a questa domanda”.

Leggi anche: L’Artico continua a sciogliersi: è la nuova “normalità” dei ghiacci

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Vincenzo Senzatela
Appassionato di scienze fin da giovane ho studiato astrofisica e cosmologia a Bologna. In seguito ho conseguito il master in Comunicazione della Scienza alla SISSA e ora mi occupo di divulgazione scientifica e giornalismo ambientale