SALUTE

Verso un biomarcatore per la sclerosi multipla

Nel liquido cerebrospinale di pazienti con sclerosi multipla sono stati trovati livelli di una molecola di microRNA più elevati rispetto ai soggetti sani

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Una molecola di microRNA legata alla produzione di mielina potrebbe essere un marcatore per identificare in modo precoce la sclerosi multipla. Crediti immagine: Public Domain

SALUTE – Negli ultimi anni l’approccio medico alla sclerosi multipla è incentrato sulla diagnosi precoce. Se fino a dieci anni fa l’idea era quella di iniziare a trattare la malattia solo nel momento in cui si esplicitava, sfruttando il più possibile i momenti di remissione spontanea dei sintomi nelle prime fasi, oggi i clinici sono d’accordo che la patologia debba essere diagnosticata e trattata il prima possibile. Questo cambio di paradigma ha fatto sì che sempre di più la ricerca medica si focalizzasse sul ruolo dei biomarcatori per la malattia, ovvero sostanze “allarme” capaci di anticipare l’insorgenza della malattia o di predirne la progressione.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano e dell’IRCCS Ospedale San Raffaele ha individuato una nuova molecola candidata a diventare un possibile biomarcatore per la sclerosi multipla. I ricercatori sono riusciti infatti a chiarire il ruolo chiave di una di queste molecole (miR-125a) nella corretta produzione della mielina, la struttura che riveste i neuroni garantendone il funzionamento e che risulta danneggiata nei pazienti con sclerosi multipla. Lo studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, mostra infatti che nel liquido cerebrospinale di persone con sclerosi multipla i livelli di miR-125a sono più elevati in presenza di lesioni “attive” rispetto ai soggetti sani.

La nuova molecola appartiene alla classe dei microRNA, breve sequenze di acidi nucleici stabili che possono essere rilasciate dalle cellule e che finire nel sangue o in altri liquidi del corpo umano. “Negli ultimi 10 anni la medicina si è concentrata molto su questi microRNA, per esempio nella ricerca sul cancro, per capire l’evoluzione dei tumori”, spiega Maria Pia Abbracchio, responsabile della ricerca per l’Università di Milano. “La loro importanza anche nella diagnosi della sclerosi multipla è invece una novità di questa ricerca. Il problema qui è infatti la mancanza di biomarcatori efficaci, dal momento che la malattia presenta fasi alterne, di acutizzazione e di remissione della stessa, alternanze che sono difficilmente prevedibili – prosegue Abbracchio – e per questo è molto importante avere un biomarcatore da seguire nel tempo correlato con la fase acuta e che compare prima del sintomo. In questo modo potremmo infatti curare meglio paziente, intervenendo prima che la fase acuta diventi sintomatica.”

Definire un biomarcatore per la sclerosi multipla potrebbe permettere ai ricercatori di pensare inoltre a un trattamento più efficace per eradicare la malattia. Quando questa non è espressa a livello clinico, alcuni campanelli di allarme sono comunque già attivi, e questo può consentire di curare in modo preventivo e usare dosi più basse di farmaco, con minori effetti collaterali e una prognosi migliore.

“Oggi vengono utilizzate terapie relativamente nuove, presenti da 8-10 anni, che comprendono immunosoppressori o anticorpi monoclonali, e che hanno decisamente cambiato la storia della malattia. Quando iniziamo a trattare i pazienti con questi farmaci, la malattia sembra arrestarsi”, spiega Abbracchio. Tuttavia, queste terapie presentano comunque alcuni problemi: si tratta di farmaci molto aggressivi, che alcuni pazienti non sopportano, e in alcuni casi si verificano vere e proprie reazioni anafilattiche. Sono inoltre farmaci che alterano il sistema immunitario predisponendo ad altre infezioni.

“Il punto centrale è poi che queste terapie bloccano, o comunque modulano, il sistema immunitario, che è responsabile della risposta autoimmune che danneggia la mielina, ma non sono in grado di ripararla, e questo non è sufficiente per parlare di cura”, precisa Abbracchio. Nel paziente giovane infatti il corpo è in grado da solo di riparare la mielina deteriorata, ma con il tempo questa facoltà di autoriparazione viene meno. “Inoltre è come se il corpo mettesse una sorta di ‘toppa’ sopra la mielina deteriorata, ma la toppa non è della stessa stoffa della mielina originaria, e per questo risulta più sensibile a ulteriori danni”, spiega la ricercatrice. “Al momento non esistono terapie che sistemano la mielina ed è proprio qui che si innesta il nostro lavoro: sviluppare farmaci in grado di rinforzare questa sostanza, da assumere in associazione con gli immunomodulanti”. “Il biomarcatore che abbiamo individuato, legato proprio alla mielizzazione, ci aiuterà a capire meglio come e quando usare questi nuovi farmaci”, aggiunge Davide Lecca, primo autore dello studio, e neo-ricercatore presso la Statale di Milano.

Le strade qui sono due, da percorrere in parallelo: sintetizzare nuovi farmaci e studiare nuovi effetti di medicinali esistenti, in gergo “riposizionarli”. Per quanto riguarda i nuovi farmaci, il principale candidato è GPR17, a cui sta lavorando il gruppo della professoressa Abbracchio a Milano e di cui ci sono già molecole selezionate in fase pre-clinica. Si tratta di un percorso comunque molto lungo, che richiederà anni di ricerche. Molto più breve è invece la strada per il riposizionamento di farmaci esistenti che regolano il recettore con proprietà promielinizzanti.

“Attualmente il principale problema è lo studio clinico sul paziente. Per i farmaci già in commercio non è necessario mostrare gli studi sul volontario sano, mentre qui dobbiamo effettuare le prove di efficacia sul paziente con la nuova malattia”, racconta Abbracchio. “Grazie alla collaborazione di Marco Salvetti, neurologo dell’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea di Roma e professore alla Sapienza di Roma, abbiamo già disegnato gli studi clinici necessari per riposizionare alcuni farmaci, ma al momento siamo fermi. La Commissione Europea non ci ha finanziato, anche se ci servirebbero solo pochi milioni di euro per un progetto della durata di un paio d’anni. È molto frustrante per noi – conclude Abbracchio – perché sappiamo dai nostri studi sulla sicurezza del paziente e dai primi dati di efficacia sui modelli preclinici che questi candidati sono molto promettenti, ma non abbiamo la possibilità al momento di proseguire le nostre ricerche.”

@CristinaDaRold

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.