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Baby sitter, alleanze, paternità: come gli scimpanzé continuano a stupirci

Una serie di nuovi studi ci catapulta nella complessa vita sociale degli scimpanzé. Che hanno la tata e, a differenza di quanto si pensava, riconoscono i propri figli

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Tra tutte le specie animali, lo scimpanzé ha un merito indiscusso: più lo conosciamo, meno ci sentiamo unici nelle nostre abilità. Fotografia di Joel Bray, Arizona State University

APPROFONDIMENTO – Su cosa renda la nostra specie davvero unica si sono sprecate un sacco di parole. Ma più conosciamo le altre specie, più questi illusori muri che ci separano cadono uno dopo l’altro. Non siamo gli unici a trasferire conoscenze, né gli unici che formano coppie per la vita. Non siamo gli unici a scegliere di cooperare invece di competere o a ricorrere a delle armi per cacciare, né i soli a cimentarsi in forme d’arte e complicate opere architettoniche. In cos’altro non siamo unici? Nel ricorrere alle baby sitter.

Oggi alla lista delle specie che sfruttano l’alloparenting (ovvero la tata) si aggiungono gli scimpanzé, dopo che uno studio l’ha osservato in 21 madri con i rispettivi piccoli allo Ngogo, Kibale National Park, in Uganda. Qual è il beneficio di affidare i pargoli a un’altra femmina se sei uno scimpanzé? Lo stesso degli umani: più tempo per dedicarti ad altro. Ma gli scienziati erano particolarmente interessati a capire un ulteriore aspetto meno ovvio, ovvero quale sia l’impatto dell’essere affidati a una babysitter per i minuscoli primati. Il più evidente è che lo svezzamento si conclude più in fretta.

“I piccoli tenuti in braccio e portati in giro spesso dalle babysitter poppano più di rado e bevono meno latte”, racconta in un comunicato Iulia Badescu dell’Università di Toronto. Diventano indipendenti prima degli altri, il che significa anche lasciare le loro madri libere di accoppiarsi ancora e avere nuovi piccoli. La poppata, per i cuccioli di scimpanzé, va però oltre il procurarsi da mangiare: può essere una ricerca di attenzione, il bisogno di conforto, perché capita che le madri li lascino proseguire anche quando sono ormai svezzati e loro non producono più una goccia di latte.

Per capire in cosa consisteva la dieta dei piccoli scimpanzé senza sfruttare metodi invasivi, gli scienziati sono ricorsi a uno stratagemma: l’esame delle feci. In questo modo hanno potuto quantificare l’importanza del latte materno nella loro alimentazione, monitorarne la crescita e stabilire con precisione quando lo svezzamento era ormai completo.

Ma non tutte le femmine scelgono di affidare il cucciolo a una babysitter, anzi. È un fenomeno che in altre popolazioni di scimpanzé potrebbe essere tutto fuorché comune. Si tratta di differenze culturali, le stesse che portano la popolazione di una certa regione a cacciare con dei bastoni (gli scimpanzé ricorrono a qualcosa come più di 20 diversi utensili in base alle circostanze) e un’altra a non averci mai provato. O un gruppo di scimpanzé su un’isola a diventare il simbolo delle tradizioni culturali animali, come è successo a quelli di Koshima, in Giappone.

Era il 1952 quando Kinji Imanishi, considerato il padre della primatologia giapponese, propose l’idea di una “cultura animale”. Se gli individui di un gruppo potevano imparare dagli altri delle abitudini particolari, al punto da differenziarsi dagli altri gruppi, perché non parlare di cultura proprio come tra umani abbiamo costumi e tradizioni? Per quei tempi si trattava di un’idea piuttosto radicale ma, nel frattempo, la nascita di una cultura era in atto a Koshima: i macachi avevano iniziato a lavare le patate dolci nell’acqua di mare, un comportamento che si diffondeva tra individui della stessa età. A iniziare, per quanto ne sappiamo, è stata una singola giovane femmina, (chiamata Imo, che ha guadagnato una statua commemorativa sull’isola) ma la tradizione come si suol dire “camminava da sola”, al punto che ancora oggi passa dalla madre alla prole.

Gombe, una miniera d’oro (scientifica) sugli scimpanzé

Va detto che una grossa fetta delle scoperte sugli scimpanzé la dobbiamo ai decenni di materiale raccolto al Gombe National Park in Tanzania -dove la primatologa Jane Goodall condusse le sue osservazioni pionieristiche-, oggi custodito nel Gombe Chimpanzee Database. Sembra incredibile, ma a cadenza pressoché mensile continuiamo ad aggiungere tasselli al complicato puzzle che è la vita di questa specie. Forse quella che più di tutte ci fa sentire poco unici, specialmente quando si tratta di stringere amicizie, vendicarsi o insegnare. Tutte cose che sembrano “così umane!”.

Proprio come noi, ad esempio, gli scimpanzé hanno capito che allearsi con chi sta al potere porta numerosi benefici. Normalmente è il maschio alfa ad avere la priorità di riproduzione con le femmine ricettive, ma di recente gli scienziati hanno avuto ulteriore conferma che i suoi più stretti alleati guadagnano una posizione di riguardo: si riproducono di più e sono favoriti a tal punto che possono accoppiarsi in presenza dell’alfa stesso. Perché concedere un tale privilegio? Il guadagno in realtà è per entrambi. Per quanto timore possa incutere, il maschio alfa ha solo due occhi e difficilmente può davvero tenere sotto controllo i suoi nemici e le femmine. In cambio di qualche concessione a breve termine, ottiene dagli alleati un aiuto nel combattere i rivali, ovvero un beneficio a lungo termine: si assicura di poter mantenere la sua posizione dominante. Un alfa, quando se la gioca bene, può rimanere in carica fino a nove anni di fila.

Ian Gilby e Anne Pusey della Duke University, autori di questa ricerca insieme a Joel Bray, studiano la popolazione del Gombe National Park rispettivamente dal 1970 e dal 1977, quando hanno iniziato a collaborare con Jane Goodall. Per quest’ultima indagine hanno ripercorso 36 anni di materiale, ovvero qualche migliaio di accoppiamenti, nei quali si sono succeduti otto diversi alfa. È così che si sono accorti che i maschi che facevano grooming più spesso con l’alfa erano anche quelli con più probabilità di riprodursi con le femmine quando lui era presente. E, per ovvi motivi, tollerava.

Gilby e Pusey hanno una serie di domande che frullano loro in testa, la cui risposta è probabilmente sepolta nell’enorme database degli scimpanzé di Gombe. In particolare, vorrebbero capire come la dominanza di un alfa influisce sui favori che concede. Un alfa con poco mordente sui rivali potrebbe aver bisogno di più supporto e più alleati, mentre uno con una posizione molto autoritaria magari si limita a concedere un contentino ogni tanto. E ancora: aver fatto grooming con un maschio da poco tempo potrebbe rendere più propensi a lasciarlo accoppiare con le femmine rispetto a un altro con cui si ha fatto grooming parecchio tempo prima.

D’altronde milioni di ore di osservazione non ci impediscono di essere costantemente sorpresi da comportamenti che non ci aspettavamo. Ad esempio si è sempre pensato che gli scimpanzé maschi non investissero troppo tempo in compagnia delle femmine che stanno crescendo la loro prole, non solo perché Pan troglodytes è una specie molto promiscua ma anche perché più volte è stato messo in dubbio se effettivamente i padri distinguessero i propri piccoli da quelli altrui.

Studiare questi aspetti nel dettaglio non soddisfa solo la nostra curiosità nei confronti di un parente piuttosto prossimo, ma fornisce anche qualche spunto su come si sia evoluto il nostro rapporto con i piccoli. Ovvero come siamo arrivati ad avere padri che investono moltissimo tempo e risorse nella progenie. Secondo un recente studio, quando gli scimpanzé maschi restano nei dintorni della femmina e del piccolo non lo fanno per assicurarsi la paternità anche dei cuccioli a venire. Garantirsi i favori della femmina non è affatto sinonimo di riuscire ad accoppiarvisi di nuovo, perciò è plausibile che lo scopo sia un altro: proteggere il piccolo.

La risposta è arrivata sempre dai dati del Gombe National Park: un’indagine condotta da vari enti di ricerca, University of Minnesota, Duke University, Lincoln Park Zoo, Franklin & Marshall College e The George Washington University, ha ripercorso 25 anni di vita “paterna” di 17 maschi e 49 tra madri e piccoli, per capire se i primi riconoscevano i loro cuccioli e se il loro comportamento cambiava quando ci stavano insieme. È stato solo osservandoli nella loro vita quotidiana che i ricercatori, guidati sempre da Pusey, hanno notato quello che non si aspettavano: i padri stavano in compagnia delle madri e dei loro piccoli appena nati decisamente più spesso del previsto.

“Come antropologi, vogliamo capire quali schemi siano esistiti agli albori dell’evoluzione umana che possano spiegare come si è evoluto il nostro comportamento”, spiega in un comunicato Carson Murray, professore alla George Washington University che ha guidato lo studio. “La nostra ricerca suggerisce che i maschi a volte diano la priorità alla relazione con la prole rispetto a quella con potenziali compagne. Per una specie che non forma coppie stabili, nella quale si pensava che i padri non sapessero quali figli erano i loro, si tratta di una scoperta importante”.

Quindi abbiamo qualche idea su come si sia evoluto il comportamento dei padri umani? Questo resta il grosso gap al centro di un complicato puzzle antropologico.

@Eleonoraseeing

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".