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Il gene riluttante: diamo troppe responsabilità al DNA?

In poco più di mezzo secolo, di quel “libro” che è la doppia elica abbiamo svelato lettere e interpretato sequenze, tagliato e cucito pezzi, spento e riacceso interruttori

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“Aver imparato a “leggere” il DNA non significa aver concluso il lavoro: le lettere di un gene e l’ordine in cui sono collocate non ci dicono quale sia la sua attività, quando la porti a termine, se lo faccia da solo o collaborando con altri geni e via dicendo.” Crediti immagine: Pixabay

LIBRI – Nel 2000 i genetisti statunitensi Francis Collins e Craig Venter annunciarono, in concomitanza, la prima lettura del genoma umano. Era il risultato di due progetti diversi, portati avanti da due team in forte competizione per anni e con un costo enorme: quasi quattro miliardi di dollari. Sono passati poco più di 15 anni ma molto è cambiato. Una sequenza umana completa oggi costa qualche centinaio/migliaio di euro ed è pronta in qualche giorno. Allo stesso tempo, più cose scopriamo sulla famigerata doppia elica più -con l’aiuto di titoli giornalistici troppo entusiasti- siamo ancora portati a pensare al “gene responsabile per…” e a immaginarci la molecola del DNA come un arzigogolato burattinaio dal quale dipende ogni cosa.

Eppure, in poco più di mezzo secolo, di quel “libro” a doppia elica abbiamo svelato le lettere e interpretato le sequenze, tagliato e cucito pezzi, spento e riacceso interruttori. Lo spiegano bene il genetista Guido Barbujani e la biologa Liza Vozza ne “Il gene riluttante” (Zanichelli 2016, 160 pagine, 11,50 €), una lettura che casca a fagiolo all’indomani dell’annuncio del primo trial clinico con la tecnica CRISPR-Cas9. Se la genetica vi intriga e volete fare un passo indietro, per capire meglio cosa ci consente di fare un taglia e cuci molecolare con l’editing del genoma, è il libro che fa per voi. Una buona “chiave di lettura”, come dice il nome della collana cui appartiene.

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Ai giornalisti, scrivono Barbujani e Vozza rompendo subito il ghiaccio, piace scrivere che il gene tal dei tali produce quel particolare effetto. C’è il gene dell’empatia e quello dell’intelligenza, quello della timidezza e quello del coraggio, ma in realtà la situazione è decisamente più complicata di così: è rarissimo che un gene da solo si faccia “riconoscere” per la sua attività, fatta eccezione per quelli il cui malfunzionamento è la causa di malattie rare come la distrofia di Duchenne o la Corea di Huntington. Ma è nel trascrivere e tradurre quei geni in proteine che la cellula spende il 75% della sua energia, un processo che attira molto meno l’attenzione (e i titoli) nonostante nel nostro corpo le proteine siano di almeno 100mila tipi diversi. Di quante conosciamo la forma tridimensionale? Appena seimila.

Aver imparato a “leggere” il DNA non significa infatti aver concluso il lavoro: le lettere di un gene e l’ordine in cui sono collocate non ci dicono quale sia la sua attività, quando la porti a termine, se lo faccia da solo o collaborando con altri geni e via dicendo. Per scoprirlo dobbiamo spegnerlo (metterlo knock down) iniziando dalle cellule e dai modelli animali, perché solo in questo modo riusciremo ad avere degli indizi. Il gene è spento e qualcosa è andato storto? Ne sappiamo qualcosa di più. Non è successo niente? Potrebbe voler dire che non è poi così utile, o il contrario: forse è talmente indispensabile che esiste un meccanismo d’emergenza per subentrare al suo malfunzionamento.

Tornando per un momento a CRISPR: nel trial appena avviato, un team cinese ha prelevato i linfociti T di alcuni pazienti oncologici, li ha modificati mettendo knock down il gene PD-1 (che codifica per una proteina legata alla risposta immunitaria anti-tumorale) e li ha re-infusi nei pazienti. La speranza è che queste cellule modificate vadano dritte dritte a combattere con il tumore, forti di un meccanismo immunitario ad hoc. Questo approccio affonda le radici nel lavoro sui linfociti di vari gruppi di ricerca, uno dei quali, come scrivono i due autori de Il gene riluttante, è il team di Carl June al Children Hospital di Philadelphia. Nel 2010 l’equipe di June ha tentato una terapia sperimentale mai provata prima su Emily Whitehead, una bimba che a soli cinque anni si era ammalata di leucemia linfoblastica acuta, un tumore del sangue molto aggressivo.

Dopo due ricadute, era chiaro che la chemioterapia non aveva più nulla da offrire. Così June ha “insegnato” geneticamente al sistema immunitario di Emily a combattere le cellule della leucemia: ha rimosso alcuni milioni di linfociti T e vi ha inserito il gene ingegnerizzato, grazie al quale potevano esprimere la proteina che, esposta in superficie, permetteva loro di riconoscere e uccidere le cellule cancerose. L’idea di CRISPR era ancora lontana, ma nel 2017 proprio June e i colleghi daranno il via a un nuovo trial clinico, che valuterà gli effetti dell’editing del genoma in ambito oncologico, sui tumori in fase avanzata per i quali non esistono più alternative terapeutiche.

Quando si parla di cancro, poi, i geni saltano subito fuori. Ci si ammala e ci si domanda: perché proprio a me? Sarà stato il fumo o l’alcol, sarà un gene che ho ereditato, sarà la sfortuna? Caso, eredità e ambiente vengono chiamati in causa come tre entità distinte, che un po’ come il gene dell’intelligenza o dell’empatia agirebbero ognuna per conto suo. Quando invece, come scrivono gli autori del libro

“Il caso però non opera nel vuoto e anzi interseca gli altri fattori. Così, per esempio, se fumo, con ogni sigaretta immetto in me sostanze cancerogene che causano non solo le mutazioni nel DNA delle mie cellule dei polmoni, della bocca, della gola e così via. Il fumo provoca anche uno stato di infiammazione cronica dei tessuti che, danneggiando le cellule, stimola le staminali a riprodursi più intensamente. Ecco che con la mia abitudine poco salubre ho offerto al caso l’opportunità di provocare errori in un numero maggiore di divisioni cellulari”

Ma anche nella vita di tutti i giorni, ormai è inevitabile, i geni spuntano ovunque. Ad esempio nel latte: due esseri umani su tre faticano a digerirlo e sono afflitti da gonfiore, crampi, mal di pancia e nel peggiore dei casi una potente diarrea. L’imputato è un enzima, la lattasi, che dopo i primi anni di vita può iniziare a demolire il lattosio (il principale zucchero contenuto nel latte) in modo meno efficiente. Ed ecco l’intolleranza: il lattosio non digerito arriva nel colon dove i batteri lo fermentano e provocano così gonfiore, gas e via dicendo.

Ma la storia del latte è anche l’esempio perfetto di come la genetica e l’ambiente -nature and nurture, volendo- non agiscano in maniera distinta. Se oggi una persona su tre può bere latte senza inconvenienti è grazie a una mutazione genetica, la “persistenza della lattasi”, LP, identificata dalla genetista finlandese Leena Pelton nel 2002 nelle periferie dell’enzima, dove nessuno era ancora andato a cercarla. In Europa, circa 7500 anni fa, si diffusero bande di pastori e agricoltori che portarono con sé una cultura casearia e agricola fino ad allora sconosciuta, una “novità tecnologica” che contribuì a portare a quell’uno su tre che oggi si gode il latte senza problemi di stomaco. Perché nel nostro caso evoluzione significa non solo biologia e genetica, ma anche lo zampino del fattore cultuale e tecnologico.

@Eleonoraseeing

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".