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Dakota Access Pipeline, dopo la vittoria i Sioux non si fermano e guardano al futuro

L'esperienza di protesta contro la costruzione dell'oleodotto è stata anche un'occasione per portare allo scoperto i tanti disagi della comunità Sioux.

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La costruzione del Dakota Access Pipeline attraverso i territori della riserva Sioux è stata momentaneamente fermata. Crediti immagine: Tony Webster, Flickr

APPROFONDIMENTO – Il 4 dicembre 2016 è stata una giornata storica per la comunità di nativi americani Sioux, che ha festeggiato sul campo di Standing Rock, in Dakota, lo stop alla costruzione dell’oleodotto combattuta per più di sei mesi (ne abbiamo parlato qui). Grazie soprattutto al supporto e all’intervento di Barack Obama, per il momento si punta a individuare un percorso alternativo, dopo la decisione del genio militare di non approvare il passaggio delle tubature nei terreni della riserva Sioux adiacenti il fiume Missouri.

Ma la protesta è davvero finita? Cosa ne sarà del campo allestito in questi mesi e della comunità di 10 000 manifestanti, tra nativi e sostenitori di diversa estrazioni sociale? Sebbene sia stato lo stesso David Archambault II, il capo tribù di Standing Rock, a raccomandare di lasciare l’Oceti Sakowin Camp nei prossimi giorni, per evitare che il freddo e la neve già caduta abbondante nella pianura porti a casi di ipotermia o altri problemi igienico sanitari difficilmente gestibili in un accampamento, diversi manifestanti sono intenzionati a restare, nella convinzione che è stata vinta una battaglia importante ma la guerra non è in realtà ancora finita.
Bisogna infatti intanto capire quale sarà la decisione del presidente eletto Donald Trump, che potrebbe in teoria far ripartire il cantiere, mentre il sospetto serpeggiato fin da subito è che lo stop ai lavori possa essere strumentalizzato per far evacuare il campo ormai quasi inagibile per le condizioni meteo e continuare i lavori. Finita la festa, ai water protector tocca quindi mantenere alta la guardia, per evitare di sprecare quanto conquistato in questi mesi, un’esperienza che promette già di fare scuola, anche letteralmente.

A lezione di tradizioni, una palestra per la scuola (vera)

Blaze Strakey, un educatore Lakota della riserva di Standing Rock, è tra le persone convinte che la data del 4 dicembre abbia segnato solo un passo, seppur importante, verso la vittoria definitiva, che non si può limitare al solo scongiurare un sopruso territoriale. L’eco di antichi colonialismi perpetuati in casa propria dagli americani va cercato – ha dichiarato il manifestante alla CNN – anche nelle violenze spesso gratuite della polizia, nei fenomeni dilaganti di razzismo e in altri eventi simili di discriminazione nei confronti delle tribù di nativi.
Il polverone sollevato a Cannon Ball ha riportato allo scoperto i tanti disagi della comunità Sioux, ma è per ora illusorio aspettarsi una risposta in tempi brevi su questi aspetti dalla politica e dalle istituzioni, coinvolte in primis nella risoluzione delle questioni energetiche e ambientali. I tempi e i luoghi della protesta sono stati tuttavia anche un’occasione per provare a mettere in pratica quelle idee di riscatto sociale e culturale che hanno accompagnato, spesso e inevitabilmente nell’ombra, le attività del collettivo di NoDAPL.

Strakey, insieme ad altri volontari, a questo proposito si è caricato l’onere di creare un vero e proprio gruppo scuola all’interno del piccolo villaggio messo su al campo Ocetin Sakowi, la Defenders of the Waters School . Questa iniziativa è nata dalla necessità di garantire un servizio utile ai genitori manifestanti impossibilitati a gestire in modo regolare la giornata, coprendo le ore solitamente dedicate allo studio con incontri di educazione informale. Non si è trattato però di un semplice tappabuchi per sostenere, nell’emergenza, l’accampamento. L’ambizione della Water Protectors School infatti è stata quella di essere un riferimento di arricchimento e sostegno per le decine di studenti di giovanissima età del campo, senza certo la pretesa di sostituirsi a un istituto scolastico accreditato. L’organizzazione di aule improvvisate nei tepee  e la curiosità dei bambini ha permesso di tenere corsi su materie e temi utili alla causa del campo e alla preparazione generale degli studenti, in previsione dell’ingresso a scuola.
Gli argomenti delle lezioni puntano in sostanza a fornire un’educazione Lakota completa, con corsi di lingua, storia e tradizioni del popolo Sioux, unita a una prima solida preparazione nelle materie di base, come la scrittura e le scienze, soprattutto matematica e scienze naturali (come etnobotanica, accompagnata da esercitazioni pratiche).

Per quest’impresa, il gruppo d’insegnanti del campo ha chiesto e ricevuto aiuto anche dall’esterno, per esempio dall’Università del Colorado e dal centro Bouder Talks, che ha consentito, in occasione del giorno del ringraziamento, di realizzare praticaamente un kit informativo per aiutare i genitori e gli educatori a spiegare ai ragazzi nel modo più efficace l’esperienza vissuta, tutte le ragioni della contesa e cosa questa significa per le loro vite. L’apertura di queste collaborazioni fa ben sperare Starkey e gli altri insegnati informali che l’esperimento possa andare oltre i confini del campo.

La lezione di una protesta

Mentre il campo di Cannon Ball si riorganizza, la protesta si sposta in Louisiana, nei pressi della Bayou Bridge Pipeline. La stessa compagnia che si è occupata della costruzione del Dakota Access Pipeline, infatti, è responsabile di un altro impianto, di dimensioni più ridotte, che minaccia l’integrità ambientale del bacino di Atchafalaya. In questi giorni, spinti dall’esperienza e dal successo di Standing Rock, i cittadini di Lafayette hanno raccolto migliaia di firme per chiedere che venga portata a termine con urgenza un’indagine sull’impatto ambientale dell’impianto che copre poco meno di 300 chilometri dal Nord Dakota alla Louisiana e interessa circa 40 ettari di suolo con una funzione importante per quel territorio. A essere in pericolo in questo caso, infatti, non solo solo le acque dei fiumi e dei bacini idrici, ma anche l’acqua piovana che viene normalmente assorbita da terreni umidi, che se smossi rischiano di provocare alluvioni e allagamenti. Le ragioni della contesa sono le stesse: da un lato l’urgenza di garantire trasporti più veloci per sostenere il mercato interno del petrolio, con l’obiettivo di limitare le esportazioni e la dipendenza energetica; dall’altro la denuncia di un intervento a gamba tesa sulle risorse comuni, a fronte di discutibili vantaggi nei trasporti – secondo le dichiarazioni di  esponenti del Gulf Restoration Network – mentre si ignorano i più di 3000 incidenti causati dagli oleodotti nei soli USA dal 2010 con almeno 80 vittime.

Il caso NoDAPL e questi primi seguiti mettono insomma con le spalle al muro la politica energetica domestica americana, mai finora affrontata in modo sistematico. Secondo diversi esperti che hanno seguito l’evoluzione di Standing Rock fino al 4 dicembre, Washington non potrà ignorare così facilmente gli eventi, anche con un programma di governo indifferente alle questioni ambientali come quello di Donal Trump, tanto più che i maggiori interessi si concentrano per ora dal Nord Dakota in giù, proprio dove la popolazione ha più bisogno di tutela ambientale.
In questo senso, Trump dovrebbe far sua la lezione imparata da altri capi di stato: anche Vladimir Putin si è trovato in passato ad affrontare un caso simile, nel 2006, presso il Lago Baikal. Vinsero i manifestanti, l’oleodotto fu deviato.

Leggi anche: #NoDPL: la protesta contro l’oleodotto in North Dakota (all’ombra di Trump)

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.