RICERCANDO ALL'ESTERO

Studiare il clima passato per capire meglio il futuro

Raccolgono le impronte lasciate dai climi passati e utilizzano modelli di simulazione per ricostruire la storia climatica del nostro pianeta: è il lavoro dei paleoclimatologi, raccontato dalla ricercatrice Alice Marzocchi

RICERCANDO ALL’ESTERO – “Quando parliamo di clima e, in particolare, di circolazione oceanica profonda, le informazioni a nostra disposizione sono davvero scarse. Le campagne oceanografiche non riescono a raggiungere le zone molto profonde, i dati sono difficili da ottenere e sono soggetti a variazioni stagionali e geografiche. Usare i modelli climatici è l’unico modo per cercare di capirne di più”.

alice-marzocchiNome: Alice Marzocchi
Età: 31 anni
Nata a: Forlì
Vivo a: Chicago (Stati Uniti)
Dottorato in: paloclimatologia (Bristol, UK)
Ricerca: L’effetto del ghiaccio marino sulla circolazione profonda oceanica
Istituto: Department of Geophysical Sciences, University of Chicago (USA)
Interessi: faccio subacquea, gioco a softball, viaggi, fotografia, musica
Di Chicago mi piace: l’architettura e il lago
Di Chicago non mi piace: i livelli assurdi di criminalità, l’inverno molto freddo
Pensiero: “One does not discover new lands without consenting to lose sight of the shore for a very long time.” (André Gide, The Counterfeiters)

La paleoclimatologia è lo studio dei climi del passato. Poiché non è possibile tornare indietro nel tempo, per interpretare il paleoclima e capire come il sistema climatico ha risposto alle perturbazioni esterne, gli scienziati si affidano alle impronte create durante i climi passati e alle simulazioni modellistiche.

Perché è importante studiare il paleoclima?

Ci sono principalmente due motivi. La modellistica numerica del clima è fondamentalmente la stessa sia per studiare il passato sia per fare predizione sul futuro, con la differenza che per il passato abbiamo dati a disposizione. Grazie al record geologico, perciò, abbiamo un riscontro per capire che cosa è successo migliaia di anni fa e possiamo testare i modelli per verificare se riescono a riprodurre le nostre osservazioni. Inoltre, se i modelli climatici non sono in grado di replicare le informazioni del passato, è plausibile pensare che non saranno affidabili nemmeno sulle predizioni sul futuro.

La mia ricerca si occupa di studiare i cambiamenti nella circolazione oceanica profonda rispetto all’ultimo massimo glaciale (LGM dall’inglese Last Glacial Maximum) e il suo legame con i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera durante i periodi glaciali.
A livello climatico, su lunghe scale di tempo, si passa da periodi glaciali, in cui sono presenti ghiacci terrestri (come quello che c’è adesso in Groenlandia e Antartide) a periodi interglaciali. Attualmente siamo in un periodo glaciale. L’ultimo massimo glaciale è l’ultimo periodo di massima espansione del ghiaccio terrestre e risale a circa 21 000 anni fa: l’emisfero Nord, con gran parte del Nord America, era tutto ricoperto da ghiaccio, i livelli di anidride carbonica erano bassi e basso era il livello marino, c’era più terraferma appunto perché parte dell’acqua era immagazzinata sotto forma di ghiaccio.

Il progetto che sto portando avanti si concentra sull’emisfero Sud, in particolare su quello che succede intorno all’Antartide. L’idea è che i cambiamenti a livello di circolazione oceanica profonda siano dettati dai cambiamenti del ghiaccio marino. Il ghiaccio marino non è salato: quando l’acqua si trasforma in ghiaccio, il sale presente viene espulso. Il record geologico per l’ultimo massimo glaciale mostra che nell’oceano profondo la salinità era più elevata, perché le temperature più basse avrebbero portato a una maggiore formazione del ghiaccio marino e quindi a una maggiore espulsione di sale. Salinità, temperatura e densità dell’acqua sono parametri che definiscono la circolazione delle masse d’acqua.

Campionamento di una cella d’acqua molto profonda, nel Nord Atlantico tra Scozia e Islanda. La sonda viene calata nell’oceano e permette di ottenere alcune delle poche misurazioni disponibili per le zone oceaniche molto profonde.

Che tipo di modelli usi per studiare la circolazione oceanica?

Il dipartimento in cui lavoro fa studi di tipo teorico e usa modelli molto semplici mirati a capire alcuni processi più nello specifico. Più elementi si includono in una simulazione, più l’analisi a livello computazionale diventa difficile: a volte, per esempio, è preferibile usare una gerarchia di modelli, e partire da quello più complesso togliendo via via le parti meglio comprese o quelle che per i nostri scopi sono meno importanti. Nei modelli più semplici che usiamo, per studiare il legame tra Antartide e Nord Atlantico quest’ultimo è rappresentato come una scatola tridimensionale con un canale nella parte Sud che rappresenta la corrente del Circolo Polare Artico; non ci sono continenti, bacini oceanici o atmosfera.

A fianco di questi modelli più semplici, mi sto occupando di capire come il passato viene riprodotto in simulazioni più complesse, come quelle usate nel report dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, cioè Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), in cui nelle analisi sono inserite molte variabili, come l’oceano, l’atmosfera, la parte terrestre.
C’è un progetto che si chiama PMIP (Paleoclimate Modelling Intercomparison Project) che coinvolge diversi gruppi di scienziati e che si propone di verificare i modelli usati per simulare i cambiamenti climatici nel passato; l’importante è che tutti utilizzino le stesse condizioni iniziali. Ci sono poi due approcci. Uno è simile a quello scelto dall’IPCC e usa molti modelli per simulare un certo processo, con l’idea che ogni modello ha pro e contro ma con grandi numeri si può restringere il campo di incertezza. L’altro approccio usa un solo modello ma in ogni simulazione vengono cambiati moltissimi parametri, ovvero si introduce una perturbazione nell’insieme di previsioni. Ciascun parametro ha ovviamente un’influenza diversa sul risultato, ma facendo tantissime simulazioni sullo stesso modello si può cercare di capire quali di questi sono più importanti o da quali dipende un certo comportamento osservato.
I periodi geologici presi in considerazione da questo progetto sul paleoclima sono diversi: l’ultimo massimo glaciale, essendo freddissimo, rappresenta l’altra faccia della medaglia rispetto a un clima futuro potenzialmente più caldo; il green Sahara, fase dell’Olocene in cui secondo il record geologico al posto del deserto in Africa c’erano albero e prati; altri periodi geologici, molto più lontani nel tempo ma più simili al nostro futuro, caratterizzati da innalzamenti di anidride carbonica e temperature più alte.

Avete raggiunto qualche conclusione sulla circolazione oceanica?

Sembra che la maggior parte dei modelli non concordi sulla rappresentazione della circolazione oceanica nell’ultimo massimo glaciale, in particolare sulla profondità della cella atlantica che in alcune simulazioni sembra raggiungere i 1000 m, in altre sembra essere più superficiale. La nostra idea è che, trattandosi di modelli grandi e complicati, se non vengono fatti girare a lungo sul computer danno risultati poco attendibili perché le variabili interne non hanno ancora raggiunto l’equilibrio. Ipotesi che sembra confermata dal fatto che nei modelli più semplici e teorici, in cui le simulazioni coprono periodi superiori ai 10 000 anni (limite computazionale dei modelli complessi), la componente oceanica riesce effettivamente a raggiungere l’equilibrio e a dare risultati in accordo con il record geologico.
Gli stessi modelli rimangono validi magari per simulare l’atmosfera, ma non l’oceano che risponde ai cambiamenti in tempi molto più lunghi.

Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?

Vorrei concentrarmi sulla gerarchia dei modelli, cercare di usare più tipi di modelli teorici regionali là dove quelli complessi non riescono ad arrivare. Inoltre vorrei capire qual è il collegamento tra l’emisfero Nord e l’emisfero Sud: al momento, infatti, non è chiaro perché lo scioglimento di ghiaccio terrestre e marino a seguito del cambiamento climatico sia diverso nei due emisferi.

Leggi anche: Turbolenza sul fondo dell’oceano

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Luisa Alessio
Biotecnologa di formazione, ho lasciato la ricerca quando mi sono innamorata della comunicazione e divulgazione scientifica. Ho un master in comunicazione della scienza e sono convinta che la conoscenza passi attraverso la sperimentazione in prima persona. Scrivo articoli, intervisto ricercatori, mi occupo della dissemination di progetti europei, metto a punto attività hands-on, faccio formazione nelle scuole. E adoro perdermi nei musei scientifici.