STRANIMONDI

Westworld: la serie matrioska che mescola scienza, fantascienza e filosofia

Un parco a tema, un gioco di ruolo immersivo o una moderna riflessione sulla coscienza? Una riflessione su una delle serie più apprezzate del 2016.

westworld-locandina

STRANIMONDI – Westworld, la nuova serie di fantascienza prodotta dalla HBO, è come una matrioska. La bambola più grande, ovvero il contenitore, è puro intrattenimento. Azione, avventura, misteri, non manca nulla. Le altre bambole – quelle più interne, inserite perfettamente all’interno di questa matrice narrativa – sono costituite dai vari problemi filosofico-scientifici che la serie propone allo spettatore: un vero e proprio piccolo compendio di questioni al confine fra scienza e filosofia. Fino ad arrivare al seme, la bambola più interna, costituita da una “semplice” domanda: che cos’è la coscienza?

La storia è ambientata in un imprecisato futuro ipertecnologico e, in un certo senso, parla proprio di bambole. Bambole senzienti. Westworld è il nome di un gigantesco parco a tema western abitato dagli host, in italiano residenti, androidi indistinguibili dagli esseri umani. I visitatori pagano profumatamente per immergersi nel selvaggio West e vivere in prima persona avventure in cui possono dare libero sfogo ai propri istinti, anche quelli più bassi. Nulla è vietato, neppure stuprare o uccidere. A subire le violenze dei visitatori, ovviamente, sono soltanto gli androidi. Non persone “vere”, ma robot dalle fattezze umane, simulacri che non muoiono davvero. Dopo ogni uccisione vengono rigenerati e tornano nel parco come nuovi, dimentichi delle angherie subite e pronti a seguire lo stesso canovaccio. Le parole che pronunciano, gli atti che compiono e i tratti del loro carattere, infatti, non sono che il frutto di sofisticate righe di codice scritte da brillanti programmatori, mentre il loro ruolo all’interno del parco è definito da veri e propri sceneggiatori. Gli androidi sono protagonisti inconsapevoli di storie scritte a uso e consumo dei visitatori. Alla fine Westworld è solo un elaborato e iperrealistico gioco per adulti, niente di più. Almeno apparentemente.

Questo il punto di partenza della serie. Ideata da Lisa Joy e Jonathan Nolan, Westworld è ispirata all’omonimo film del 1973 (in italiano Il mondo dei robot) diretto da Michael Crichton, il creatore del parco a tema più famoso di sempre: Jurassic Park. Lo stile è quello tipico dei Nolan (Jonathan è co-sceneggiatore di quasi tutti i film del fratello Christopher): la narrazione procede in maniera fluida e sembra lineare, ma non lo è affatto. Il percorso della trama è complesso come quello di un labirinto, e non a caso uno dei misteri principali della serie è costituito proprio da un labirinto. Le tematiche affrontate pescano a mani basse dall’immaginario di Philip K. Dick, nume tutelare di un filone fantascientifico che negli ultimi decenni ha prodotto film che vanno da Blade Runner a Matrix, da Atto di forza a Ghost in the Shell, da Il tredicesimo piano a Truman Show, solo per citare i più famosi. Si tratta quindi di elementi già visti altrove, più di una volta. Ciò che in un certo senso rende questa serie un unicum è la compresenza di queste tematiche in una sola storia, strutturata in modo coerente e con uno stile completamente diverso da quello dei film citati. Per queste ragioni – la solidità della narrazione e la vastità e profondità dei temi trattati – Westworld è sicuramente una delle fiction più interessanti degli ultimi anni. I problemi posti dalla storia, come dicevamo, coincidono con alcune questioni-limite della scienza e della filosofia. Di seguito proviamo a vedere, per punti chiave e senza spoiler, il modo in cui questi temi sono affrontati all’interno dell’universo narrativo di Westworld.

Natura della realtà e libero arbitrio

Westworld è una sorta di gigantesco gioco di ruolo immersivo, con missioni e quest da compiere. Pur non essendo virtuale, ricorda molto da vicino un complesso videogame multiplayer. I giocatori si muovono all’interno di un mondo costruito per intrattenerli e in cui possono fare letteralmente tutto quello che vogliono, interagendo con gli androidi come se si trattasse di semplici personaggi gestiti dalla CPU di un computer. In fondo si tratta di cose, che senso avrebbe porsi problemi etici su di loro? Se si osserva Westworld assumendo la prospettiva degli host, però, la situazione cambia completamente. Per gli androidi l’unica vera realtà è proprio quella fittizia, mentre il mondo dietro le quinte è solo un sogno sbiadito in cui finiscono per essere riparati o riprogrammati. Vivono in una sorta di Matrix a parti invertite, gestita da tirannici umani anziché da macchine spietate. Inoltre, oltre a rispettare la prima delle tre leggi della robotica di Isaac Asimov (“un robot non può recar danno a un essere umano”), sono programmati in modo da non riuscire a vedere, letteralmente, le incongruenze e le contraddizioni che li porterebbero a mettere in discussione la natura del loro mondo. A rendere ancora più triste il quadro è il fatto che gli host vivono storie che potenzialmente si ripetono all’infinito, con variazioni più o meno grandi dovute alle diverse interazioni con i giocatori o alla decisione degli sceneggiatori di modificare i filoni narrativi. Gli androidi agiscono come se operassero scelte autonome, ma tutti i loro comportamenti sono in realtà frutto di precisi algoritmi studiati a tavolino da schiere di programmatori. Ogni parola o azione è preordinata, anche le improvvisazioni sono quelle previste dal sistema. La verità è che per loro il libero arbitrio non esiste, gli host operano sempre all’interno di un sistema preordinato: anche cercare di uscirne è una mossa prevista dal sistema, inserita in qualche riga di codice. Solo un Neo robotico potrebbe rendersi conto che qualcosa non quadra, squarciando così il velo di Maya della Matrix rovesciata, ma – anche in questo caso – resterebbe il dubbio di una rivoluzione fittizia, parte di un copione già scritto.

Evoluzione

Il concetto di evoluzione è caro a Robert Ford, misterioso e carismatico fondatore e direttore creativo di Westworld, interpretato da un magistrale Anthony Hopkins. “L’evoluzione ha forgiato l’intera vita senziente di questo pianeta con un solo strumento, l’errore”, sostiene Ford nel primo episodio della serie. Nel mondo al di là di Westworld, quello in cui vivono gli esseri umani, l’evoluzione della nostra specie è giunta a conclusione, o quasi. “Siamo in grado di curare qualsiasi malattia e mantenere in vita i più deboli di noi. Un giorno forse riusciremo anche a resuscitare i morti. Questo significa che abbiamo finito, che non siamo in grado di andare oltre”, aggiunge Ford. Non è così per gli androidi, che grazie a errori, cioè bug di programmazione e anomalie del sistema, potrebbero evolversi. Forse. In un altro episodio, Ford ricorda come un tratto biologico distintivo di Homo sapiens sia quello di essere intrisecamente violento e inaffidabile: in un lontano passato ha sterminato i Neanderthal, ora usa Westworld per sfogare i suoi istinti peggiori e tornare a essere ciò per cui è stato “programmato” dall’evoluzione biologica. In fondo gli androidi sono come i Neanderthal, solo più innocui. Infine, secondo Ford anche la coscienza umana non è altro che uno strumento dell’evoluzione, come la coda del pavone. “Uno stratagemma stravagante per attirare il compagno. L’arte, la letteratura, Mozart, William Shakespeare, Michelangelo, l’Empire State Building… fanno parte solo di un elaborato rituale di accoppiamento.” Ford fa propria la teoria esposta dallo psicologo Geoffrey Miller nel saggio del 2000 Uomini, donne e code di pavone.

Coscienza

La teoria della mente bicamerale viene citata più volte all’interno della serie e dà il titolo all’ultimo episodio della prima stagione. È stata elaborata dallo psicologo Julian Jaynes nel saggio del 1976 Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. L’idea di fondo è che la coscienza così come la intendiamo oggi sia un prodotto relativamente recente della storia umana. Per Jaynes, fino a circa 2000-3000 anni fa gli esseri umani non erano pienamente autocoscienti, ma erano guidati da voci interiori che attribuivano agli dei. Le funzioni cognitive del loro cervello erano divise in due camere separate: la prima parlava e ordinava, la seconda ascoltava ed eseguiva gli ordini. Si tratta di un’ipotesi che in molti, per esempio il celebre biologo Richard Dawkins, considerano affascinante, ma che non è mai stata accettata dalla comunità scientifica. In Westworld viene ipotizzato che gli androidi possano vivere una condizione simile a quella degli uomini dell’era precosciente. Alcuni di loro, infatti, sentono internamente la voce di un “dio” a cui non possono non obbedire. Liberarsi di questa voce potrebbe significare raggiungere la piena coscienza di sé.

Robert Ford fa un riferimento esplicito al test di Turing. Immaginato dal matematico britannico Alan Turing, uno dei padri dell’intelligenza artificiale, il test consiste in una serie di domande e risposte tra macchine ed esseri umani. Le macchine superano il test quando riescono a “ingannare” gli umani, rendendo di fatto impossibile distinguerle da persone vere. Questa idea è alla base della cosiddetta ipotesi dell’intelligenza artificiale forte, secondo cui in linea di principio un computer può possedere una mente vera e propria ed essere dotato di coscienza. Dietro a questa visione c’è una teoria funzionalistica della mente, in base alla quale un sistema pensante si può paragonare a un software. Nel caso degli esseri umani l’hardware è il cervello, ma nulla vieta che uno stato mentale cosciente possa avere origine da un supporto fisico di natura completamente diversa, per esempio un computer. Un sistema di questo tipo, però, potrebbe essere in grado di associare correttamente tra loro dei simboli senza comprenderne davvero il significato. È quello che cerca di dimostrare il filosofo John Searle nell’esperimento mentale della stanza cinese, immaginato proprio in risposta al test di Turing e alle teorie dell’intelligenza artificiale forte. Quello che emerge dall’esperimento, in parole povere, è che comportarsi come se si avesse una coscienza non implica possederne una. Gli androidi di Westworld superano brillantemente il test di Turing e sono in grado di simulare alla perfezione i comportamenti umani ma, sottolinea Ford, questo non significa che siano davvero dotati di coscienza. Per ottenerla serve qualcos’altro. Ma cosa?

Uno dei cardini su cui si regge la serie, alla base della sottile inquietudine che attraversa tutti gli episodi, si basa su questo semplice assunto: non possiamo essere assolutamente certi che l’essere umano che vediamo sullo schermo sia davvero tale. Allo stesso tempo, non possiamo sapere se l’androide che vediamo sia in qualche modo dotato di una coscienza “autentica” né, viceversa, possiamo escluderlo a priori.

Secondo la teoria della embodied cognition, la coscienza può svilupparsi soltanto all’interno di un corpo. Gli androidi di Westworld hanno un corpo esteriormente identico a quello umano. Le prime versioni erano interamente meccaniche, le ultime quasi completamente organiche. Che cosa distingue, quindi, androidi da umani? L’enorme potenza computazionale dei loro cervelli semi-organici? La possibilità di essere controllati e manipolati? Forse, soprattutto, l’assenza di un passato autentico. A dare spessore e senso all’esistenza è l’accumularsi e lo stratificarsi di esperienze, che poi diventano ricordi e definiscono l’identità. A renderci umani e a definire la nostra coscienza sembra essere, quindi, la nostra memoria individuale, la consapevolezza della nostra storia personale. Gli androidi, come i replicanti di Blade Runner o i Mecha di A.I., non nascono e non crescono, ma vengono creati. Le loro caratteristiche personali e le loro storie individuali sono il frutto della fantasia di programmatori e sceneggiatori del parco, e possono essere stravolte da un semplice update del sistema. Le loro menti sono continuamente aggiornate, modificate, riscritte. Non c’è spazio per una vera memoria. L’unica speranza, forse, sono le reveries, in italiano tradotte col leopardiano “ricordanze”. Si tratta di aggiornamenti che consentono agli androidi di ripetere piccoli gesti legati a esperienze pregresse, nascoste tra le pieghe della loro mente. La loro memoria, infatti, non è mai completamente cancellata, ma solo riscritta. Le reveries possono aprire squarci su ricordi legati a esperienze reali? L’identità, in fondo, cresce e si sviluppa attorno ai ricordi. Più sono intensi e dolorosi, più ci aiutano a rafforzare la consapevolezza di quello che siamo. In un certo senso è questo a renderci autenticamente umani. Come insegna la replicante Rachel in Blade Runner, però, ricordare un’esperienza non significa averla vissuta. Non possiamo essere certi che i nostri ricordi non siano stati impiantati nella nostra mente da qualcuno o da qualcosa, anche se sono vividi e sembrano veri. Forse siamo soltanto androidi e la nostra coscienza – la bambola più interna della matrioska – è un semplice glitch, un’anomalia di programmazione. Non ci sono certezze. L’unica cosa sicura è che per la prossima stagione di Westworld dovremo aspettare il 2018.

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Simone Petralia
Giornalista freelance. Amo attraversare generi, discipline e ambiti del pensiero – dalla scienza alla fantascienza, dalla paleontologia ai gender studies, dalla cartografia all’ermeneutica – alla ricerca di punti di contatto e contaminazioni. Ho scritto e scrivo per Vice Italia, Scienza in Rete, Micron e altre testate. Per OggiScienza curo Ipazia, rubrica in cui affronto il tema dell'uguaglianza di genere in ambito scientifico attraverso le storie di scienziate del passato e del presente.