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Il restauro con le nanotecnologie: l’innovazione nei Musei Vaticani

Le nanotecnologie vanno in aiuto alla conservazione del nostro inestimabile patrimonio artistico e culturale. Creazione – Cappella Sistina. Flickr/Jorg Lohrer

SPECIALE DICEMBRE – All’interno dello stato Vaticano, dove l’arte incontra la religione, l’innovazione delle nanotecnologie incontra l’arte. Accade nel Laboratorio di Diagnostica per la Conservazione e il Restauro dei Musei Vaticani, fondato nel 1936, dove si studia e si esegue il restauro di importantissime opere d’arte. Si tratta di un laboratorio in cui i restauratori lavorano fianco a fianco ai tecnici, siano essi fisici, chimici o ingegneri, per consolidare le opere e riportarle al loro splendore.

Fabio Morresi, assistente del Laboratorio scientifico guidato da Ulderico Santamaria, ci spiega che gli scienziati lavorano al restauro e alla conservazione non solo dei Musei Vaticani, ma anche delle principali quattro basiliche di Roma quali San Pietro, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le Mura e Santa Maria Maggiore, oltre a quelle di Loreto e Padova. Morresi sottolinea l’importanza della presenza di un laboratorio scientifico all’interno del museo, una struttura che i Musei Vaticani sono tra i pochissimi al mondo ad avere: “Il Gabinetto ricerche scientifiche è stato creato nel 1936 del Vaticano, che ha mostrato una mentalità molto aperta e una visione futuristica del restauro stesso. Ora prende il nome di Laboratorio di Diagnostica del restauro in cui lavorano 11 tecnici, tra chimici e biologi. Ognuno di loro, poi, è specializzato nel suo campo, sia esso la chimica organica, inorganica o gli aspetti biologici o ingegneristici.”

Tutti collaborano seguendo protocolli di intervento dei restauri, dove tutte le figure sono ben classificate e hanno compiti definiti: “Il restauro è totalmente cambiato nell’approccio. Tutto parte da un testo, quello di Michele Cordaro, che definisce il restauro moderno e sottolinea come sia importante dividere le competenze. Ognuno ha un ruolo preciso: lo storico o l’archeologo sono coloro che dirigono il progetto di restauro e sono affiancati dagli scienziati, che si occupano dello studio dei materiali e delle cause del degrado, suggerendo così la tecnica più efficace ai restauratori, coloro che fisicamente mettono mano all’opera e portano a termine il restauro.”

Ma qual è il lavoro di uno scienziato all’interno di un laboratorio di restauro? Spiega Morresi: “Ci occupiamo di stabilire le cause del degrado dell’opera e mettere a punto un protocollo di intervento per sanarlo, oppure mettere a punto un protocollo per tipologia di intervento, per lo studio dei materiali o semplicemente per conoscenza dell’opera, quando non è posta in restauro, come nel caso della Deposizione del Caravaggio, custodita nei Musei Vaticani, che abbiamo avuto modo analizzare, scoprendo come l’artista l’ha realizzata, le varie alterazioni che ci sono state nei secoli e i cambiamenti che ha subito.”

Esistono, nel mondo dei beni culturali, due tipi di analisi che uno scienziato può effettuare su un’opera d’arte, con prelievo o senza prelievo: “Quando parlo di prelievo, ovviamente, si intende un campione di 200 o al massimo 300 micron, una misura che lascia capire che tipo di sensibilità debbano avere gli strumenti che utilizziamo in laboratorio per ottenere risultati effettivi. Nel caso di analisi senza prelievo, ci avvaliamo di analisi per immagini, come raggi X che ci permettono di stabilire la tecnica esecutiva, e di spettroscopia, che permette di individuare i tipi di pigmenti usati e le caratteristiche chimiche dei materiali.”

In questa cornice, che coniuga scienza e arte, un ruolo chiave viene svolto dall’impiego delle nanotecnologie, che vengono impiegate soprattutto per il consolidamento delle opere d’arte soggette ad ammaloramento: “Le nanotecnologie sono entrate nei beni culturali, soprattutto per il consolidamento, e vengono utilizzate per consolidare opere ammalorate, oppure per cambiare e modificare le caratteristiche chimico-fisiche della superficie, per esempio per renderla idrorepellente, oppure per cambiare e modificare le caratteristiche di tutto il materiale. Proprio il consolidamento oggi rappresenta l’80% delle applicazioni delle nanotecnologie, che vengono impiegate per gli affreschi, ma anche per opere lapidee, come il restauro di materiali calcarei e graniti, o per gli smalti.”

Nel caso del restauro degli affreschi, come ad esempio quello della Cappella Sistina del Michelangelo iniziato negli anni Ottanta e che Morresi ha avuto l’occasione di seguire, è importante capire quali sono i materiali utilizzati per poter scegliere la miglior tecnica di consolidamento. Il processo di deterioramento del dipinto in affresco avviene quando negli spazi superficiali o subsuperficiali, in genere si tratta di microfratture, si verifica un indebolimento del pigmento. L’affresco rischia così di spolverare, cioè di essere ridotto in polvere dall’indebolimento ed essere spazzato via insieme allo sporco quando la superficie viene pulita, per esempio con un solvente, dal restauratore.

Proprio su queste microfratture vanno ad agire le nanoparticelle, come le nanocalci, che hanno il compito di riempire le microfratture e consolidare l’intonaco e con esso il pigmento: “In questo caso viene in nostro aiuto il microscopio a scansione, che con un prelievo di un campione dell’ordine di micrometri permette di avere un’analisi topografica all’interno della sezione stratigrafica dell’affresco, indicando i punti in cui si trovano i singoli elementi chimici e permettendo l’identificazione della zona che sarà soggetta al trattamento di consolidamento.”

Una volta che la mappatura dell’affresco è stata eseguita, vengono applicate le nanocalci, spiega Morresi: “Alle pitture in affresco vengono applicate le nanocalci, che entrano nelle fratture ricarbonandole e riaderendo lo strato pittorico. Si tratta di nanoparticelle che non entrano in profondità nell’affresco, ma si fermano sulla superficie. Per questo motivo è importante sapere se la pittura è in ottimo affresco o se ci sono zone che presentano colla o olio, perché nel secondo caso le nanoparticelle non riescono a penetrare nelle fratture, rischiando che il processo di ricarbonatazione causi uno sbiancamento dell’affresco stesso e dunque lo danneggino.”

Le nanoparticelle vengono dunque applicate con fogli impregnati di alcol etilico, che favorisce la diffusione nel materiale che si vuole restaurare, ma questa tecnica presenta dei limiti. Uno di questi è proprio che si tratta di un consolidamento superficiale, quindi una sorta di riadesione dei pigmenti, così che i restauratori possano trattare la superficie in sicurezza, senza incorrere nel rischio che i pigmenti spolverino: “Se il pigmento spolvera, non sarà possibile togliere lo sporco superficiale senza incorrere nel rischio di eliminare anche il pigmento e quindi danneggiare l’affresco. Una volta operato il consolidamento a nanoparticelle si può procedere a un restauro agendo anche con un solvente o con un altro processo. Uno dei cardini del restauro – spiega Morresi – è che il materiale deve essere removibile e reversibile, non deve danneggiare l’opera in nessun modo e deve essere rispettoso dell’opera stessa. Questo è un concetto borderline, perché anche le nanocalci non sono reversibili e l’applicazione di nanotecnologie non risponde al quesito uno del restauro, ma c’è un motivo. Le nanoparticelle vengono impiegate in situazioni di consolidamento e questo non può essere reversibile, perché consolidare un materiale per poi rimuoverlo potrebbe portare a un collasso. Quindi i consolidamenti rappresentano una deroga al cardine del restauro, ma naturalmente deve essere un materiale inerte e compatibile con la materia che stiamo trattando.”

Le nanotecnologie vengono utilizzate anche per il consolidamento delle opere lapidee, come per esempio le statue e le strutture in marmo. Questo materiale è molto sensibile all’inquinamento, tanto che se esposto a piogge acide può dare vita al fenomeno del “marmo zuccherino”, dove i cristalli sono così degradati che il marmo si sgretola sotto alla semplice pressione di un dito, proprio come se avesse la consistenza dello zucchero: “In questo caso le nanocalci si vanno a collocare nell’interfaccia delle facce cristalline. L’edificio cristallino con il degrado si allenta, si formano spazi tra le facce cristalline e perde adesione, quindi essenzialmente il consolidamento avviene lungo l’interfaccia dei singoli cristalli dei carbonati di calcio. Gli spazi da riempire sono davvero piccoli, quindi le nanoparticelle sono perfette per entrare, ma vanno portate con un solvente, come l’alcol etilico che ha un gran potere di diffusione nel materiale.”

Anche nel caso del consolidamento dei graniti le nanotecnologie rappresentano un valido aiuto. Se le rocce granitiche hanno una struttura al silicio che non va incontro al degrado da inquinamento, come invece accade per il marmo, esiste la possibilità che si verifichino nel materiale venature o lesioni. Per sanare queste fratture si utilizzano le nanosilici: “Per i graniti usiamo le nanosilici, che funzionano con un nucleo e tante codine che risentono della struttura silicica e formano i ponticelli che ne permettono il consolidamento. L’effetto finale è quello ottenuto con le nanocalci per i marmi e le tecniche di diffusione con alcol etilico nel materiale sono analoghe.”

Anche nel caso degli smalti è possibile usare le nanoparticelle. Un esempio viene dal restauro del calice che il Papa donò a San Francesco e che è custodito nella basilica di Assisi. Si tratta di un calice decorato con medaglioni smaltati e firmato da Guccio di Mannaia: “Nel medioevo conoscevano le nanoparticelle, ma non lo sapevano. Mannaia gioca coi nanocoloranti creando delle immagini su smalto molto piccole, definendo dettagli e creando giochi di luce e ombra su oggetti del diametro di pochi centimetri. Le placchette, per esempio, sono tutte aggiunte alla struttura del calice e sono costituite da smalti applicati su placchette di argento, che vengono incise prima di essere cotte nei forni insieme alle polveri che, sciogliendosi, vanno a formare lo smalto stesso.”

Anche nel caso degli smalti, in aiuto di scienziati e restauratori arrivano le nanosilici, che però vengono applicate insieme ad un polimero organico che fa da collante: “Le nanoparticelle vanno così a riempire gli spazi vuoti da consolidare, ma il polimero organico ne aumenta il potere adesivo e ne permette il fissaggio, ottenendo così non solo il consolidamento ma anche la riadesione dello smalto stesso, con il risultato di avere un riacquisto completo della lettura dell’immagine smaltata.”

Quelle che abbiamo fin qui descritto rappresentano solo alcune delle applicazioni delle nanotecnologie nel mondo del restauro e dei beni culturali, un campo che è ancora all’inizio del suo sviluppo ma ha già mostrato importanti risultati per la conservazione delle opere d’arte. E se ci chiedessimo qual è una sfida per il futuro delle nanotecnologie nel restauro, Morresi non ha dubbi: “Vorrei toccare un punto che è una novità, quello dei biocidi, cioè sostanze che contengono principi attivi in grado di distruggere, eliminare o rendere innocue determinate sostanze, come per esempio funghi e licheni che attaccano le opere d’arte. I biocidi, come i metaboliti con proprietà antimicotiche, possono essere incapsulati in nanoparticelle, per esempio di argento o di zinco, e immersi poi in oli essenziali, in modo da ottenere un’applicazione a lento rilascio del metabolita che neutralizza e impedisce la crescita di funghi, licheni e batteri che possono danneggiare l’opera.”

I primi passi sono stati fatti, ora l’arte chiama la scienza. Le nanotecnologie, che hanno avuto un ruolo da protagonista anche nell’assegnazione dei premi Nobel del 2016, dalla medicina vanno in aiuto anche alla conservazione del nostro inestimabile patrimonio artistico e culturale.

@oscillazioni

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