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Vera Rubin, l’astronoma che scoprì la materia oscura

Rotazione delle galassie, ammassi di galassie e materia oscura sono alcune delle sue scoperte

Vera Rubin e Kent Ford (col berretto bianco) nel 1965, durante una delle prime osservazioni insieme al Lowell Observatory. Crediti immagine: Carnegie Institution, Department of Terrestrial Magnetism

Da ragazzina trascorreva notti intere a fissare il cielo dalla sua camera da letto. “Vera, non passare tutta la notte con la testa fuori dalla finestra!”, le diceva la madre. Ma lei non la ascoltava. Di fronte a quello spettacolo era impossibile dormire. Il suo non era uno sguardo trasognato o estatico – non soltanto, quantomeno – ma scientifico e razionale. Quando c’erano delle piogge di meteoriti, Vera restava sveglia per osservarle e poi segnava le traiettorie su una mappa. In quella ragazzina con la testa all’insù era già presente, in nuce, la grande astronoma che avrebbe fatto delle scoperte fondamentali sulla rotazione delle galassie e dimostrato l’esistenza della misteriosa materia oscura, di cui è fatto oltre un quarto del nostro universo. Vera Cooper Rubin, questo era il suo nome, è scomparsa lo scorso 25 dicembre all’età di 88 anni.

Nata a Philadelphia, in Pennsylvania, Vera si trasferisce a Washington con la famiglia alla fine degli anni Trenta. Il padre, ingegnere elettrico, la incoraggia a coltivare la sua passione per l’astronomia, accompagnandola agli incontri degli astrofili cittadini. Vera divora i libri di James Jeans, astrofisico e divulgatore, ma nulla riesce ad appagarla più dell’osservazione diretta della volta celeste. A 14 anni, con l’aiuto del padre, applica delle lenti a un tubo di cartone utilizzato per contenere un rotolo di linoleum e realizza un telescopio amatoriale, che usa per scandagliare il cielo notturno. In quegli anni ha già le idee molto chiare su quello che studierà all’università: astronomia, ovviamente. Si iscrive al Vassar College, istituto femminile in cui aveva insegnato Maria Mitchell, la prima astronoma americana. Dopo la laurea al Vassar decide di specializzarsi a Princeton, dove insegnano alcuni tra i più importanti astronomi del Paese, ma si scontra con la dura realtà dell’epoca: il corso di astronomia non è aperto alle donne. Per fortuna non tutte le università adottano questa politica. Viene accettata ad Harvard, ma nel frattempo si sposa e decide di seguire suo marito, che studia alla Cornell University.

Nel dicembre del 1950 – pochi mesi prima di laurearsi alla Cornell, appena ventiduenne e da poco madre – Vera Rubin fa già parlare di sé. A un convegno della American Astronomical Society presenta il suo lavoro di tesi in cui sostiene la rotazione delle galassie e dell’intero universo attorno a un centro sconosciuto. Il giorno dopo il Washington Post titola “Una giovane madre scopre il centro della creazione attraverso il moto delle stelle”. L’accoglienza da parte degli astronomi, in realtà, non è delle migliori. Quasi nessuno prende sul serio le teorie di una ragazza poco più che ventenne. Sia Astrophysical Journal che Astronomical Journal, le due più importanti riviste dedicate all’astronomia, rifiutano la pubblicazione del paper.

Dopo la laurea alla Cornell, la Rubin viene contattata dal grande cosmologo russo George Gamow e, sotto la sua supervisione, nel 1954 ottiene il dottorato alla Georgetown University con una tesi sulla distribuzione delle galassie nell’universo. Dalla ricerca emerge che le galassie non sono distribuite in modo omogeneo, ma tendono a raggrupparsi in giganteschi ammassi, lasciando enormi spazi all’apparenza vuoti. La scoperta, anche in questo caso, viene accolta con scetticismo dalla comunità scientifica. Vera Rubin resta alla Georgetown University fino al 1965, quando inizia a lavorare alla Carnegie Institution, dove incontra Kent Ford, un astronomo che aveva costruito uno spettroscopio estremamente sensibile e sofisticato. Lo spettroscopio, uno strumento in grado di scomporre la luce raccolta da un telescopio nelle varie frequenze che la compongono, viene utilizzato da Rubin e Ford per analizzare la rotazione di alcune galassie. A cominciare da M31, la galassia di Andromeda.

In quell’occasione, Rubin e Ford scoprono qualcosa di strano. Secondo la teoria gravitazionale di Newton, le stelle nella zona più esterna della galassia dovrebbero muoversi molto più lentamente rispetto a quelle interne, che percorrono un’orbita più stretta e vicina al centro. È quello che succede, per esempio, nel sistema solare: i pianeti più vicini al Sole ruotano più velocemente rispetto a quelli più distanti. Nella galassia di Andromeda, invece, e in tutte le altre galassie analizzate successivamente, la velocità delle stelle esterne è simile a quella delle stelle situate all’interno. Un fenomeno tanto bizzarro può essere spiegato, secondo Vera Rubin, solo ipotizzando che le stelle risentano di forze gravitazionali generate da qualcosa che non riusciamo a vedere. Una materia invisibile, che non emette radiazione elettromagnetica, completamente diversa rispetto a quella ordinaria. La materia oscura. Già nel 1933 l’astronomo svizzero Fritz Zwicky aveva teorizzato la presenza di una materia sconosciuta per spiegare le anomalie legate alla massa di alcune galassie, ma è solo grazie alle analisi di Vera Rubin e Kent Ford che ne viene dimostrata definitivamente l’esistenza. Oggi sappiamo che il 27 per cento del nostro universo è costituito da materia oscura, mentre la materia ordinaria – quella di cui è fatto tutto quello che riusciamo a vedere: galassie, stelle, pianeti, noi stessi – rappresenta solo il 5 per cento. Il restante 68 per cento è composto di qualcosa di ancora più misterioso, l’energia oscura.

Nel corso della sua lunga carriera, Vera Rubin ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti. Nel 1993 è stata premiata con la National Medal of Science e nel 1996 è stata la seconda donna a ricevere la gold medal da parte della Royal Astronomical Society, quasi centosettant’anni dopo Caroline Herschel. In molti pensano che avrebbe meritato il premio Nobel per la fisica. “La fama è fugace”, disse la Rubin subito dopo la sua elezione alla National Academy of Science, “per me i miei numeri sono più importanti del mio nome. Gli astronomi utilizzano i miei dati a distanza di anni, non esiste complimento più grande”.

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Simone Petralia
Giornalista freelance. Amo attraversare generi, discipline e ambiti del pensiero – dalla scienza alla fantascienza, dalla paleontologia ai gender studies, dalla cartografia all’ermeneutica – alla ricerca di punti di contatto e contaminazioni. Ho scritto e scrivo per Vice Italia, Scienza in Rete, Micron e altre testate. Per OggiScienza curo Ipazia, rubrica in cui affronto il tema dell'uguaglianza di genere in ambito scientifico attraverso le storie di scienziate del passato e del presente.