IN EVIDENZA

Studenti di medicina depressi: un problema tutto da risolvere

La classe medica spesso sembra considerarsi al di sopra di altre categorie di lavoratori e, per gli studenti, questo si traduce spesso nel vivere il percorso di studi con una forte pressione, diventando facilmente vulnerabili sotto l’aspetto della salute mentale.

Il disagio mentale tra gli studenti di medicina, se non curato, si può trascinare nel lungo termine, intaccando il futuro lavorativo di questi giovani, aumentando il rischio di errori e pregiudicando la performance nel momento dell’interazione con i pazienti. Crediti immagine: Pixabay

APPROFONDIMENTO – La rivista americana JAMA ha da poco pubblicato una revisione della letteratura scientifica sul problema del disagio psichico tra gli studenti delle facoltà di medicina. Un problema noto da tempo: già nel 1936 uscì una pubblicazione della School of Medicine dell’Università della Pennsylvania dove si descrivevano i risultati di una ricerca sul disagio psichico tra gli studenti di medicina della stessa Università. Ma da allora non si è ancora trovata una spiegazione precisa del problema e nemmeno la soluzione.

Nell’editoriale, Stuart J. Slavin sottolinea: “considerando che il sistema sanitario americano ha come obiettivo curare il sintomo e non promuovere la salute dell’individuo, non desta alcuna sorpresa il fatto che anche la salute mentale degli studenti di medicina sia per lo più accantonata e che strategie preventive si intravedano con grande difficoltà”. Il fatto che siano gli stessi autori della revisione a evidenziare i limiti dello studio rappresenta per Slavin un aspetto cruciale “perché il mondo medico sente la necessità di affrontare questo problema mettendo a punto studi più approfonditi e rigorosi dal punto di vista metodologico”.

L’incidenza della depressione tra gli studenti di medicina è maggiore rispetto a quanto registrato nella popolazione generale: come riportato da uno studio del National Institute of Mental Healthnell’arco di 12 mesi, su 67.500 persone si è rilevata un’incidenza del 9.3% di episodi depressivi nei giovani tra i 18 e i 25 anni e del 7.2% tra i 26 e i 49 anni. Lo studio di JAMA, invece, stima che tali episodi siano da due a cinque volte più frequenti tra gli studenti delle facoltà di medicina: dall’esame di 195 articoli scientifici è emerso come su 122.356 studenti il 27.2% soffra di depressione o di sintomi depressivi e che su 21.002 studenti l’11.1% abbia idee suicidarie. La depressione colpisce in modo trasversale maschi e femmine, mentre i sintomi depressivi aumentano del 13.5% con l’ingresso a medicina. Solo il 15.7% degli studenti si è sottoposto a un trattamento psicoterapico per risolvere il problema. Dati preoccupanti, perché depressione e idee di suicidio sono collegate, nel breve termine, a un aumento dei tentativi di commettere un gesto estremo e, nel lungo termine, al ripresentarsi del “male oscuro” rendendone difficile la gestione.

Numero di studi coinvolti per continente (JAMA)

I circa 200 studi presi in esame sono stati selezionati tra 2316 identificati attraverso una ricerca condotta sui principali motori di ricerca biomedica. La restrizione è avvenuta adottando criteri come l’analisi del titolo e dell’abstract – per capire se l’articolo era attinente al tema, escludendo i paper che analizzavano gruppi di riferimento non attinenti. Inoltre, sono stati presi in esame tutti gli articoli senza restrizione geografica, ma l’Italia non appare, come evidenziato dal seguente grafico.

Douglas Mata dell’Harvard Medical School, co-autore dello studio, ha chiarito come la ricerca “nonostante sia stata condotta includendo i risultati ottenuti dai maggiori database – PubMed, EMBASE, psycINFO, psycARTICLES ed ERIC – non ha restituito dati relativi all’Italia. Abbiamo ragionato sul perché e la risposta potrebbe essere semplice: perché nessuno ha studiato il fenomeno in Italia oppure, se qualcuno l’ha fatto, non ha pubblicato i dati”.

L’analisi di JAMA si confronta anche con un lavoro recente in cui si dimostra una maggiore incidenza di episodi depressivi tra gli specializzandi, con una percentuale quasi sovrapponibile: 27.2% tra gli studenti e 28.8% tra gli specializzandi. Questi numeri suggeriscono come il disagio mentale tra gli studenti di medicina, se non curato, si trascini nel lungo termine, intaccando il futuro lavorativo di questi giovani, aumentando il rischio di errori e pregiudicando la performance nel momento dell’interazione con i pazienti.

Secondo Eleonora Dafne Frau, responsabile del settore Salute Pubblica della International Federation of Medical Students’ Associations (IFMSA) – di cui anche il Segretariato italiano degli Studenti di Medicina fa parte (SISM) – “la classe medica spesso sembra considerarsi al di sopra di altre categorie di lavoratori, purtroppo”. Per gli studenti questo si traduce spesso nel  vivere il percorso di studi con una forte pressione, diventando facilmente vulnerabili sotto l’aspetto della salute mentale. I motivi sono vari: perché sono tendenzialmente più perfezionisti e portati a credere che il lavoro non possa essere fatto ‘in modo perfetto se non da soli’ (questo riduce la tendenza a collaborare con i colleghi), afferma Frau, ma anche fattori sociali come lo stigma – ‘lo studente di medicina non è previsto che si ammali’ – e l’eccesso di carichi di lavoro. “Gli studi che si occupano della salute mentale di questi studenti” commenta Frau “devono prendere una posizione a sostegno della causa perché, ripeto, siamo uno dei gruppi vulnerabili: non siamo macchine invincibili e la scarsa salute mentale compromette molto la qualità del nostro lavoro”.

Proprio lo stigma, secondo Frau, potrebbe essere il problema principale: “gli studenti di medicina hanno paura a parlare delle loro difficoltà perché ammettere davanti a un superiore situazioni come uno stato depressivo, un periodo di eccessivo affaticamento o un esaurimento (burn out) è un segnale di debolezza che può mettere a repentaglio la carriera”.

È possibile cambiare questo sistema accademico così complesso, allo stesso tempo d’eccellenza ma anacronistico? “Ci sono studenti di alcuni Paesi che hanno creato dei progetti, come piattaforme di chat online anonime tra studenti per poter condividere senza paure le proprie difficoltà” ci racconta Frau. “Anche solo sapere che questi supporti ci sono è già ‘una luce in fondo al tunnel, ma purtroppo c’è ancora tantissimo lavoro da fare’. A livello internazionale, la nostra associazione sta cercando di aumentare la consapevolezza del problema e le difficoltà legate alla sindrome del burn out. Nel 2016 abbiamo iniziato a far circolare mensilmente una “Scheda di valutazione dello stress” tra gli studenti coinvolti nella leadership dell’IFMSA, oltre a frequentare la facoltà, sono impegnati per molte ore anche nelle attività della Federazione”. Perché studenti con difficoltà come quelle descritte nello studio di JAMA “non diventeranno medici più rigorosi” secondo Frau.

Leggi anche: Che differenza c’è tra medicina narrativa e storytelling?

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Federica Lavarini
Dopo aver conseguito la laurea in Lettere moderne, ho frequentato il master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste (SISSA). Sono giornalista pubblicista e scrivo, o ho scritto, su OggiScienza, Wired, La Lettura del Corriere della Sera, Rivista Micron, Il Bo Live, la Repubblica, Scienza in Rete.