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Orsi polari, sentinelle degli inquinanti nell’Artide

Nel 2011 la convenzione di Stoccolma ha bandito 12 inquinanti industriali pericolosi per la salute umana e animale. Il provvedimento è servito ma negli ecosistemi artici si fanno strada i loro "successori", ancora ampiamente utilizzati

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Il cambiamento climatico non è l’unica minaccia per gli orsi polari, che nei tessuti accumulano enormi quantità di inquinanti persistenti. Fotografia di Ansgar Walk, Wikimedia Commons CC 3.0

SPECIALE GENNAIO – Le immagini degli orsi polari di Churchill, che nella baia canadese di Hudson mangiano alghe, cani e altri orsi per sopravvivere, hanno fatto il giro del mondo. Nell’arco di 30 anni la loro presenza qui è diminuita di oltre il 30% e con sempre meno ghiaccio gli animali patiscono la fame. Eppure il cambiamento climatico non è l’unica minaccia per la specie, solo che l’altra è invisibile. O perlomeno, non si può fotografare.

Si tratta dei POP, gli inquinanti organici persistenti (Persistent Organic Pollutants), sostanze chimiche molto resistenti alla decomposizione ed estremamente dannose per la salute, anche la nostra. I POP prioritari sono 12 e sono stati messi al bando nel 2001 con la Convenzione di Stoccolma, fatta eccezione per uno, il più famoso, che ha ottenuto una deroga. È l’insetticida DDT, para-diclorodifeniltricloroetano, che si usa ancora nei paesi colpiti da malaria dove resta l’unica molecola efficace per contrastare le zanzare Anopheles.

Che i POP si accumulano nei tessuti degli animali polari si sa da molto tempo. Ma nel 1996 un campanello d’allarme ha incoraggiato nuove indagini: alcuni scienziati hanno trovato dei cuccioli d’orso ermafroditi e ipotizzato che ci fosse uno sconvolgimento ormonale in corso. “Anche gli Inuit del circolo polare artico, la cui alimentazione si basa in gran parte su risorse locali, avevano già mostrato problemi di salute. Entrambi i fattori hanno portato gli Stati intorno al CPA a consorziarsi e iniziare una campagna di monitoraggio dei contaminanti in questo ambiente”, spiega  a OggiScienza Sara Villa dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, prima autrice di uno studio sui POP appena pubblicato su Environmental Toxicology and Chemistry.

Una miscela di inquinanti

Nei mammiferi i POP possono compromettere il sistema immunitario e riproduttivo, negli uccelli alterano le gonadi, gli embrioni e rendono più sottile il guscio delle uova. La lista stilata dalla convenzione rimane aperta all’inclusione di nuove sostanze: se da una parte i 12 inquinanti principali sono già stati messi al bando, infatti, dall’altra continuiamo a usare molti “nuovi” POP nella vita di tutti i giorni.

“Grazie ai dati raccolti nelle ultime decadi abbiamo pesato la presenza di ognuno dei 12 POP e valutato come è cambiata la miscela di inquinanti nel tempo. Così abbiamo scoperto che i ‘vecchi’ POP come il DDT non hanno più un impatto elevato mentre quelli nuovi, come l’acido perfluoroottansolfonico (PFOS) sì. Il che da un lato è una buona notizia, perché significa che le normative che hanno bandito queste 12 sostanze, come la convenzione di Stoccolma, sono servite” prosegue Villa, “ma dall’altro dimostra che è necessario monitorare anche quelle nuove. E non è mai facile per un consorzio stabilire di eliminare una molecola, sia dal punto di vista politico che economico”.

Come arrivano fino ai poli delle sostanze chimiche che vengono utilizzate da tutt’altra parte, come il DDT? “Queste sostanze si attaccano al particolato atmosferico o sono semi-volatili, quindi viaggiano come gas nell’aria. Evaporano dalle zone calde dove vengono utilizzate e, per una serie di cicli di condensazione e ri-volatilizzazione, arrivano fino alle aree fredde dove la loro volatilizzazione è ridotta perciò non tornano in circolo, ma rimangono intrappolate. Questo meccanismo di condensazione fredda fa sì che le aree fredde, polari e montane -come i nostri ghiacciai alpini- siano luoghi particolarmente a rischio. Sono accumulatori di contaminanti atmosferici”, prosegue Villa.

I POP sono molto persistenti in quanto clorurati: la presenza del cloro in una molecola la rende refrattaria alla degradazione e i batteri, che operano gran parte di quella biologica, faticano ad attaccarla. “I POP hanno anche un’elevata lipofilia, ovvero sono molecole che amano il grasso. Immaginiamo un sistema bi-fasico con acqua e olio: una sostanza idrofila finirà nell’acqua, una lipofila nell’olio. Lo stesso fanno questi inquinanti che negli orsi polari, ma anche negli esseri umani, vanno ad accumularsi nei grassi”. Villa e i colleghi hanno anche mostrato che negli orsi adulti il rischio legato ai POP è maggiore di due ordini di grandezza rispetto alla soglia considerata sicura, ma sale a tre per i cuccioli.

La scalata della catena trofica

I POP risalgono la catena trofica artica attraverso la cosiddetta biomagnificazione. Quando un organismo viene mangiato il contenuto in grassi passa al suo predatore: così gli inquinanti viaggiano dall’acqua al plankton, dal plankton al pesce e dal pesce alle foche, sempre nei lipidi e senza mai essere smaltiti dai processi metabolici. Come se si concentrassero sempre di più fino a raggiungere il predatore apicale, l’orso polare, che (riscaldamento globale permettendo) si ciba quasi solo di foche.

“Sapevamo già da tempo che per un orso adulto i POP sono pericolosi, ma nei piccoli è ancora peggio. Mamma orsa allatta durante l’inverno, ‘attaccando’ le risorse lipidiche che ha accumulato in estate. Si tratta di un latte molto grasso, circa 30 volte più del nostro: rimettendo in circolo le sue riserve lei si detossifica, ma libera i contaminanti e li trasferisce tutti al piccolo”.

Oggi si valutano nuovi candidati per l’ingresso nella lista della convenzione, ad esempio i PPDFE e i PFOS che “nella miscela dei contaminanti registrati negli ultimi anni pesano moltissimo”, spiega Villa. “I PPDE sono ritardanti di fiamma e si trovano nei tessuti, nel linoleum, nella formica che copre i mobili. I PFOS sono praticamente ovunque, specialmente tessuti come teflon e gore-tex. Tanto è vero che quando lavoriamo in laboratorio dobbiamo stare molto attenti agli indumenti che indossiamo, perché potremmo contaminare i campioni”.

Dal punto di vista chimico questi nuovi POP non sono lipofili né così persistenti, così per anni sono stati cercati nell’atmosfera. Non trovandoli, si è pensato a lungo che fossero del tutto sicuri, “invece sfruttano un meccanismo di trasporto del tutto diverso: arrivano ai poli attraverso le masse oceaniche, non via aria, e non si accumulano nel grasso ma principalmente nelle proteine. Le misurazioni si fanno generalmente su animali morti o con biopsie, ovvero piccoli prelievi di grasso. Così queste sostanze sono riuscite a sfuggire a lungo al monitoraggio”, conclude Villa.

La buona notizia da portare a casa è che le misure di controllo e restrizione messe in atto sono servite. Ci vorranno molti altri anni per veder scomparire del tutto queste sostanze, ma siamo sulla strada giusta per tutelare almeno in parte gli ecosistemi polari, già messi a dura prova dai cambiamenti globali. A partire dal 2006 gli orsi polari sono stati dichiarati vulnerabili nella Lista Rossa della IUCN (Unione Internazionale per la conservazione della natura) e oggi circa il 60% vive in Canada, mentre gli altri si trovano tra Alaska, Groenlandia, Russia e Norvegia, nell’arcipelago delle Svalbard. In totale sopravvivono 19 popolazioni su quattro diverse regioni dell’Artico. Se siete curiosi potete dare un’occhiata a Global Bear Tracker, che mostra gli spostamenti di alcuni orsi muniti di radiocollare nella baia di Hudson. Al centro della baia con segnalino fucsia c’è Polaris, una femmina accompagnata dal suo piccolo di due anni, che da quando è stata radiocollarata (1 ottobre 2016) ha percorso quasi 800 chilometri!

polar bear tracker

@Eleonoraseeing

Leggi anche: L’Artico continua a sciogliersi. È la nuova “normalità” dei ghiacci

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".