STRANIMONDI

Arrival: il contatto con gli alieni, fra scienza (poca) e linguistica

Il film di Denis Villeneuve ha raccolto 8 nomination ai premi Oscar, un'impresa rara per una pellicola di fantascienza.

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Nel film Arrival, Amy Adams interpreta la linguista Louise Banks, alle prese con la decifrazione di un linguaggio alieno

STRANIMONDI – Dodici astronavi, dodici enormi monoliti scuri che atterrano in diversi punti del pianeta. Il panico si diffonde e i governi reagiscono inviando squadre di esperti per tentare di dialogare con gli alieni. Inizia così Arrival, l’atteso film di fantascienza di Denis Villeneuve che ha suscitato grande interesse all’ultimo Festival di Venezia e che ha raccolto otto nomination ai premi Oscar, fra le quali Miglior film, Miglior regia e Miglior sceneggiatura non originale.

A guidare la squadra americana ci sono la linguista Louise Banks (Amy Adams) e il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner), coordinati dal colonnello Weber (Forest Whitaker). Verrebbe da chiedersi come mai, fra gli esperti incaricati di prendere contatto con una forma di vita aliena sconosciuta, non ci sia neanche un esobiologo, ma possiamo soprassedere su questo punto. Il timore di una possibile minaccia genera una crescente spirale di tensione che renderà i tentativi di interazione di Louise e Ian una corsa contro il tempo per decifrare le intenzioni dei misteriosi alieni, prima che la situazione degeneri.

L’inizio di Arrival è potente. Come già dimostrato nei suoi precedenti film, Villeneuve sa prendersi il tempo necessario per costruire la tensione narrativa con cui alimentare la storia, rallentando il ritmo e lasciando crescere l’aspettativa. L’impatto suggestivo e coinvolgente del primo contatto non viene smorzato dagli incontri successivi, nonostante parte del mistero – perlomeno per quanto riguarda l’aspetto degli extraterrestri – venga svelato. Anche perché rimane il mistero più grande, quello riguardante le loro intenzioni. Accanto a questa vicenda se ne sviluppa un’altra, più personale, che riguarda Louise e il grave lutto famigliare con cui deve fare i conti.

La linguista è il centro del film e Amy Adams è bravissima a reggere sulle spalle questa responsabilità, dando vita a un personaggio ricco di sfumature espressive che si alternano fra il dolore, la stanchezza e la lucida consapevolezza delle scelte che si trova a dover affrontare. Chi invece non convince è Jeremy Renner, con la sua piatta interpretazione di Ian. A sua discolpa va però detto che il personaggio è piuttosto monodimensionale e non offre spunti a cui appigliarsi. E qui entra in gioco una delle importanti differenze fra il film e il romanzo che l’ha ispirato.

Sì, perché Arrival è tratto da un racconto di Ted Chiang, Storia della tua vita, che fa parte di un’omonima raccolta. E, nel racconto, il ruolo di Ian ha molto più peso, perché i suoi studi sulle conoscenze scientifiche degli alieni si vanno a intrecciare con le scoperte linguistiche di Lousie, creando la base per la rivelazione principale della storia. Rivelazione che si fonda su due teorie: il principio di minima azione, fondamentale nella fisica moderna, con applicazioni che vanno dalla termodinamica alla meccanica quantistica fino alla teoria delle stringhe, e l’ipotesi di Sapir–Whorf, secondo la quale la struttura di un linguaggio influenza la visione del mondo e i processi cognitivi di chi lo parla.

C’è quindi molta carne al fuoco dal punto di vista scientifico, motivo per cui è stato coinvolto uno scienziato come consulente. Si tratta di Stephen Wolfram, fisico, informatico e imprenditore, responsabile, fra le altre cose, dello sviluppo di Wolfram Alpha, un servizio online che decodifica ed elabora le domande poste dagli utenti, cercando di fornire risposte dettagliate e non una serie di link relativi all’argomento, come fa un classico motore di ricerca.

Un buon curriculum, visti i temi affrontati dal film. Wolfram, aiutato dal figlio Christopher, ha discusso con autori e attori, e si è messo al lavoro sul linguaggio alieno, correlando diversi tipi di dati, per esempio quelli riguardanti i siti di atterraggio delle astronavi o la loro forma, per ottenere la suggestiva visualizzazione circolare della loro scrittura. Come spiega in un lungo post sul suo blog, si è anche inventato diverse possibili spiegazioni del funzionamento delle astronavi, dalla capacità di manipolare lo spazio-tempo alla presenza, nel loro involucro, di atomi di elementi a noi sconosciuti, fino all’utilizzo di una tecnologia basata sulla fisica dei buchi neri. Dettagli che non sono finiti nel film ma che hanno fornito spunti ad autori e sceneggiatori.

Nonostante tutto questo sforzo, però, la componente scientifica del film è ridotta al minimo; invece di incentrare la vicenda sul binomio fisica-linguistica sviluppato nel racconto di Chiang, Villeneuve sceglie di concentrarsi solo sul linguaggio. Con il risultato che l’importanza del personaggio interpretato da Renner viene fortemente sminuita e il suo essere un fisico teorico diventa piuttosto superfluo nell’economia del film. Non un grosso problema, soprattutto se non si conosce il racconto originale, ma spiace che questa parte sia stata eliminata a vantaggio di una sottotrama politico-militare forzata e poco convincente, pressoché assente invece nel testo di Chiang. Nell’originale, le intenzioni degli alieni non sono bellicose e la loro permanenza sulla Terra è ben più lunga. Il che concede molto più tempo agli scienziati di tutto il mondo per comunicare con loro e rende la decifrazione del loro linguaggio più graduale e credibile di quanto avvenga nel film.

Il che ci porta alla terza, grande differenza rispetto al racconto originale, che si rivela anche essere la principale debolezza del film, e che sarà impossibile commentare senza qualche spoiler (siete avvisati).

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Il compito dei protagonisti è capire perché le dodici astronavi sono arrivate sulla Terra

Tanto nel racconto quanto nel film, la comprensione del linguaggio alieno apre una nuova e potente prospettiva, che metterà la protagonista di fronte a una scelta difficile. Nel racconto, però, questa conseguenza è un effetto collaterale della conoscenza, mentre nel film è l’obiettivo principale che spinge gli alieni a scendere sulla Terra e a insegnare agli umani il loro linguaggio. Si tratta infatti di un dono (e qui si potrebbe discutere, perché non tutti vorrebbero ricevere un dono del genere), in cambio del quale chiederanno l’aiuto degli umani fra tremila anni.

Una spiegazione che risulta essere narrativamente debole, un’aggiunta resa necessaria dall’escalation militare, che richiede una soluzione rapida dell’intreccio prima che la guerra prenda il sopravvento. È il solito cliché hollywoodiano dell’eroe che sventa il grande pericolo per un soffio, del quale però questo film non aveva davvero bisogno. In parte per come è gestito dal punto di vista dell’intreccio, con soluzioni a volta forzate e frettolose. Ma soprattutto per come sposta inevitabilmente parte dell’attenzione del film sul problema politico-militare, distogliendola da quello che, nel racconto di Chiang, è il tema centrale della vicenda: una riflessione sulle scelte personali e sul libero arbitrio, innescata dal principio di minima azione e dalla teoria della relatività linguistica. Tema che è comunque presente in Arrival, sebbene svuotato dalla componente fisica e gestito come il classico colpo di scena finale, invece che come una lenta e graduale presa di coscienza.

In conclusione, Villeneuve ha dato prova della sua bravura nel modo in cui ha raccontato il contatto con gli alieni e lo studio del loro linguaggio, con uno stile sobrio e privo di derive retoriche, aiutato dall’ottima prova di Amy Adams, da una fotografia di grande impatto (anch’essa candidata all’Oscar) e da una colonna sonora ispirata. Di contro, però, viene da pensare che senza la sottotrama militare – e le evidenti forzature narrative che si è trascinata dietro – il film sarebbe riuscito molto meglio. Villeneuve avrebbe infatti potuto sviluppare in maniera più efficace le due riflessioni principali, quella universale sul linguaggio, e quella più intima e personale sul libero arbitrio, senza dove pagare pegno a stereotipi hollywoodiani che in questo caso erano piuttosto fuori luogo.

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Michele Bellone
Sono un giornalista e mi occupo di comunicazione della scienza in diversi ambiti. I principali sono la dissemination di progetti europei, in collaborazione con Zadig, e il rapporto fra scienza e narrativa, argomento su cui tengo anche un corso al Master di comunicazione della scienza Franco Prattico della SISSA di Trieste. Ho scritto e scrivo per Focus, Micron, OggiScienza, Oxygen, Pagina 99, Pikaia, Le Scienze, Scienzainrete, La Stampa, Il Tascabile, Wired.it.