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Viaggio nel tempo tra i ghiacci

Chiudiamo l'approfondimento sull'Antartide parlando di come sono cambiate le tecnologie e la vita delle missioni.

SPECIALE GENNAIO – Il viaggio alla scoperta di luoghi remoti è da sempre un’attrazione per l’uomo. Se i viaggi avventurosi del passato e l’evoluzione di strumenti tecnologici all’avanguardia ci sembra che abbiano svelato tutti i segreti delle terre abitate dall’uomo, restano ancora luoghi inesplorati, domande inevase e la necessità di fare previsioni per il futuro.
Sono questi elementi che spingono i ricercatori ancora a partire verso luoghi inospitali e remoti. Se la capacità di adattarsi a condizioni estreme resta ancora un prerequisito di chi parte in missione, come si sono evoluti i viaggi in questi 30 anni che ci separano dall’inizio delle attività in Antartide da parte dell’Italia?

Quando partì Mario Zucchelli dell’ENEA, il ricercatore a cui oggi è dedicata la Stazione Italiana della Base di Terranova, era tutto da impostare: mancavano le strutture per ospitare i ricercatori, occorreva organizzare dal punto di vista logistico la ricerca ed era indispensabile fare accordi internazionali.

Crediti immagine: Francisco Ardini / ©PNRA / CC-BY-SA 4.0, Wikimedia Commons

“I primi anni erano propriamente dedicati all’esplorazione“, racconta Angelo Camerlenghi, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS). Camerlenghi non è partito nelle primissime missioni della fine degli anni ’80, ma ha iniziato a frequentare il territorio antartico poco dopo. Allora c’erano ancora aspetti sconosciuti dell’Antartide: “In quell’epoca era indispensabile impostare un’esplorazione più profonda, che andasse ad indagare la struttura sotto i fondali del Continente Antartico”. La struttura del continente infatti ci rivela la sua evoluzione nel corso delle ere geologiche, la dinamica dei continenti e gli apporti fluviali che hanno modellato il territorio prima che fosse ricoperto dai ghiacci.

“Allora si trattava proprio di tracciare linee perpendicolari alla costa, che dovevano essere percorse dalla nave per sondare cosa c’era lì sotto”. Era una sorta di ecografia dei fondali, un’indagine indispensabile per impostare l’esplorazione scientifica successiva. Da allora sono passati trent’anni e proprio in questi giorni la stessa nave che ha solcato quei mari, l’Explora OGS, ha oltrepassato il 60esimo parallelo sud entrando ufficialmente nelle acque marine antartiche. “Pur essendo sempre la stessa, la nave ha subito profondi interventi di ristrutturazione”, ha spiegato Franco Coren, il Direttore delle Sezione Infrastrutture che segue la gestione della nave. “I recenti lavori hanno reso l’imbarcazione più sicura, suddivisa in compartimenti e rispondente a uno standard di manutenzione più elevato, che non era richiesto nei primi anni”.

La vita a bordo

E infatti oggi la vita a bordo è abbastanza confortevole. A differenza delle missioni a terra, dove gli scienziati devono fare i conti con -30°C di temperatura e condizioni meteo estreme, chi sale sulla nave ha condizioni migliori. “Sulla piattaforma tecnologica ci sono 20°C e la mensa con anche le torte. Non bisogna però dimenticare che le nostre attività si svolgono su un guscio di acciaio in balia delle condizioni ambientali e marine. Sulla nave c’è una tensione particolare, perché gli imprevisti si possono presentare in ogni momento”, ha spiegato Camerlenghi, che durante le missioni li ha affrontati, anche per mettere in salvo la preziosa strumentazione della nave. Basta un cambiamento delle condizioni meteo, l’avvicinamento di un iceberg alla deriva o l’arrivo di onde apparentemente invisibili all’orizzonte, ma che poi fanno dondolare la nave per cinque o sei metri, per interrompere le attività.

Oggi, infatti, l’esplorazione viene effettuata tramite perforazioni dei sedimenti marini, che contengono informazioni sul clima di quei territori nel momento in cui quei sedimenti si sono depositati e originati. I sedimenti possono raccontarci se in una determinata era c’era più o meno caldo, com’erano le condizioni di umidità, come erano le dinamiche di trasporto fluviale o glaciale. Ma per ricostruire la storia, essa deve essere continua: “Sedimenti grossolani (a volte anche di notevoli dimensioni) erosi dal ghiaccio, sono rilasciati sul fondale marino dagli icebergs in aree dove prevale la sedimentazione fangosa. Durante la perforazione, o il carotaggio, la presenza di pietre dure in una matrice sedimentaria fangosa, costituisce un rischio che può condizionare pesantemente le attività. Lo scalpello dell’impianto di perforazione può venire bloccato dalla presenza di queste rocce granitiche ed impedisce il recupero del sedimento. In alcuni casi abbiamo perfino dovuto interrompere la perforazione”, ha spiegato Camerlenghi.

Crediti immagine: Riccardo Ilungwirth (OGS)

Lo sviluppo tecnologico

Benché le tecniche di perforazione a scopo scientifico non si siano evolute quanto quelle per i pozzi petroliferi (anche per una questione di costi), il successo di una misura non dipende tanto da questo. Anche se gli impianti, messi a disposizione del progetto internazionale International Ocean Discovery Program (IODP) sono efficienti e robusti, forti di un esperienza decennale di utilizzo 365 giorni all’anno, la buona riuscita di una missione è ancora legata agli eventi naturali, come ben sanno i ricercatori.

È un’altra invece la parte tecnologica della nave OGS Explora che si è evoluta tantissimo. “Una volta i dati venivano raccolti da non più di 4-5 sensori. Oggi invece la nave imbarca strumenti che misurano costantemente dati che vanno dalla geofisica fino alla biologia marina e a bordo ci sono laboratori dedicati a varie discipline”, ha aggiunto Coren.
La nave è cresciuta in termini di capacità di offrire strumentazioni e spazi, due elementi che permettono di aumentare lo spettro di ricerca. “L’esperienza personale e il confronto con altre nazioni ha portato a queste evoluzioni tecniche”, ha sottolineato Coren, spiegando quanto sia importante il confronto internazionale e con la componente scientifica che sale a bordo per allestire al meglio l’imbarcazione.

Lo stesso vale per i ricercatori: la ricerca in Antartide ha sempre un respiro internazionale e interdisciplinare ed è basata più che mai sulla cooperazione. “A volte capita di raccogliere dati per colleghi, anche di altri centri di ricerca, se nella loro missione precedente li avevano persi a causa delle condizioni ambientali”, ha ammesso Camerlenghi a cui è capitato un episodio simile.

Ricerca in Antartide: quale futuro ci attende?

Siamo partiti dal passato per ricostruire la storia delle missioni, ma cosa ci aspettiamo per il futuro? Sull’avvenire di queste missioni in terre estreme si è abbattuto un nuovo accordo internazionale, che ha introdotto il Polar Code, una normativa che richiede alle navi ulteriori innalzamenti degli standard di sicurezza e minore impatto ambientale. L’OGS Explora, come detto, è una nave all’avanguardia ed è ancora efficiente, ma il suo scafo ha 40 anni. È urgente una riflessione sul futuro delle missioni in Antartide.

“In Italia abbiamo sviluppato delle capacità di ricerca marina polare molto avanzate e riconosciute a livello internazionale. Bisogna quindi pensare come continuare a investire sulle competenze, le conoscenze e la cultura, che abbiamo costruito in 30 anni di lavoro”, ha detto Camerlenghi, spiegando come i dati raccolti oggi dalle calotte polari siano importanti per prevedere la futura evoluzione del clima. E poi c’è la questione di andare a scoprire informazioni ulteriori dalle terre che rimangono scoperte dal ghiaccio in seguito al riscaldamento globale.

La curiosità verso tali questioni irrisolte induce entrambi i ricercatori a sperare in una nuova nave, che dia la possibilità di continuare le missioni in prossimità delle calotte polari. Una nave più verde, che diminuisca l’impronta ambientale e che sia adatta a svolgere missioni sia in Artico che in Antartico, seguendo l’alternanza delle estati boreali e australi è quello che desidererebbero avere.

@AnnoviGiulia

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Giulia Annovi
Mi occupo di scienza e innovazione, con un occhio speciale ai dati, al mondo della ricerca e all'uso dei social media in ambito accademico e sanitario. Sono interessata alla salute, all'ambiente e, nel mondo microscopico, alle proteine.