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“A walk on the wild side”, versante italiano

Tre economisti hanno chiesto a un migliaio di autori italiani perché hanno scelto di pubblicare su riviste di dubbia qualità.

Dal video “What are Predatory Publishers”, Università del Manitoba https://www.youtube.com/watch?v=-xoQHTnTTrw

RICERCA – Sul sito della Scuola Superiore Sant’Anna, Manuel Bagues e Natalia Zinovyeva dell’Università Aalto di Helsinki e Mauro Sylos Labini dell’Università di Pisa hanno messo un “articolo di lavoro”, una bozza in pratica, intitolato come la canzone di Lou Reed. A differenza di altre analisi delle riviste predone e del loro mercato, questa raccoglie centinaia di esperienze personali.

Per una serie di ricerche, i tre economisti si erano procurati il curriculum di 46.244 candidati a una promozione

circa il 61% dei ricercatori e il 60% dei professori associati del Paese.

Hanno così scoperto che tra il 2002 e il 2012 su un totale di 1,8 milioni di articoli, circa il 5% (2.225) ne aveva pubblicati 5.798 su una rivista inclusa nell’elenco di Jeffrey Beall. Per saggiare l’affidabilità di quest’ultimo, a mille autori selezionati a caso hanno mandato un questionario, quantitativo (quante volte?) e qualitativo (com’è andata?), chiedendo di spiegare il motivo e di dare un giudizio sulla propria scelta.

La prima sorpresa è che ha risposto più della metà dei destinatari, con particolari sulle pratiche di 268 riviste

un terzo di esse non ha fornito i rapporti dei revisori, o ha avuto un comportamento editoriale che suscitava dubbi sulla loro integrità. Data la possibilità di resoconti spuri, interpretiamo questa cifra come il limite inferiore del grado di frode in questo insieme di riviste.

Stranamente,

i risultati sono molto simili in un sottinsieme di 74 riviste indicizzate da SCOPUS.

C’è “una zona grigia”, dice Sylos Labini, tra la lista nera di Beall e quella bianca di SCOPUS (nota 1) non sempre legittima, mentre metà delle riviste potenzialmente predone si sono comportate con integrità.

O forse no, se si considerano i limiti sottolineati in “A walk on the wild side”: non è detto che le risposte alle domande – molto diplomatiche – dei tre economisti siano sempre veritiere, tenuto conto del fatto che il 64% sono già ricercatori e il 36% professori associati. Non precari disperati, insomma.

Terzo risultato inatteso:

Nelle scienze e nelle scienze mediche, soltanto lo 0,4% degli articoli in inglese erano pubblicati su una rivista predona. La percentuale è superiore nelle scienze sociali e nelle materie umanistiche (0,7%) e in ingegneria (1,6%) ed è la più elevata in economia e business (4,1%).

Le valutazioni hanno avuto un effetto perverso:

Dal 2010 osserviamo un forte incremento nella proporzione di articoli pubblicati sulle riviste della lista di Beall, sopratutto in economia e business.

Nel 2012, superavano il 5%.

Risultato sconfortante: il 90% dei sondati ha risposto di ignorare l’esistenza della lista di Beall, nonostante le riviste scientifiche più quotate e i media ne parlino da anni anche in Italia. Tutta informazione inutile…

Nota 1

SCOPUS elenca 4000 riviste  open access. Ma c’è un’altra lista bianca. L’Associazione degli editori open access “di qualità” ha cancellato dalla propria ben 3776 riviste (su 12.595) che non hanno dimostrato di rispettare i suoi criteri, meno stringenti di quelli di Beall. Sull’Italian Journal of Library, Archive and Information Sciences (JLIS), Andrea Marchitelli, Paola Galimberti, Andrea Bollini e Dominic Mitchell analizzano la qualità di quelle rimaste e trovano che la media sia visibilmente migliorata.

Leggi anche: Open access: l’editoria predona e i suoi clienti

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