COSTUME E SOCIETÀ

Chi è favorito agli Oscar?

Secondo uno studio esiste una vera e propria distorsione nella percezione della qualità della recitazione dovuta al senso di comunanza fra giudice e attore quando questi condividono dei valori socio-culturali.

Gli autori dello studio pensano che gli americani vengano percepiti e giudicati come più bravi dalla giuria americana specialmente quando si tratta di essere i vincitori. Crediti immagine: Pixabay

COSTUME E SOCIETÀ – Di certo c’è che quest’anno ci risparmieremo il solito dubbio “Di Caprio sì/Di Caprio no”. Di molto probabile invece c’è che i vincitori dell’Oscar come miglior attore/attrice protagonista saranno un americano e un’americana. Cosa piuttosto ovvia, direte voi: è un premio che pesca nell’industria cinematografica USA! Sì, il problema è che, al di là del bias statistico, secondo un nuovo studio della Queensland University (Australia) pubblicato sul British Journal of Psychology, nei Premi Oscar esiste un’ulteriore distorsione di natura cognitiva: i giudici percepiscono (e dunque giudicano) come migliori le prestazioni di attori con cui condividono alcune caratteristiche identitarie, in questo caso la nazionalità. Il risultato è che (dal 1968 al 2015) a fronte di circa il 67% di attori americani che hanno ottenuto una nomination, gli statunitensi a vincere il premio alla fine sono ben il 78% .

Prima la statistica: il reservoir in cui l’Accademia va a pescare i film per le nomination è quello dell’industria del cinema americano, che ovviamente impiega una percentuale preponderante di attori di nazionalità americana, una percentuale minore di attori inglesi e via via di altre nazionalità. Supponiamo che il 90% degli attori impiegati qui siano americani. Se la preferenza per gli americani fosse unicamente determinata dalla distribuzione della popolazione di origine la dovremmo ritrovare, almeno dopo un numero consistente di edizioni del Premio, quasi identica nel campione dei nominati e in quella dei premiati. È come avere un’urna del lotto con 90 palline rosse e 10 bianche: ripetendo tante volte l’estrazione finiremmo per ottenere 90% di estrazioni rosse e 10% bianche.

Lo studio, ahimè, non riporta il dato sulla nazionalità degli attori che lavorano in America, per cui non possiamo sapere se la percentuale di americani che osserviamo nelle nomination (67%) sia frutto di una distorsione o meno. Ammettiamo che non lo sia, che non vi siano cioè altri fattori in gioco: questa distribuzione dovrebbe mantenersi molto simile per i premiati. Abbiamo però già visto che così non è: i vincitori americani sono ben il 78%, 11 punti percentuali in più. Che cosa è successo?

Molto probabilmente, spiegano Niklas Steffen, primo autore del lavoro, e colleghi, c’è qualche altro fattore che influenza il giudizio, come se avessimo a che fare con unurna truccata. In particolare, sottolineano gli autori del paper, questo fattore “extra” porta a favorire gli americani soprattutto quando si tratta di ottenere un vero giudizio di eccellenza (il premio a fronte della semplice nomination, ovviamente meno prestigiosa). Gli autori pensano che gli americani vengano percepiti e giudicati come più bravi dalla giuria americana specialmente quando si tratta di essere “i più bravi”, i vincitori cioè.

Fair Play britannico? Hmm, insomma…

Per aggiungere robustezza alla loro ricerca gli autori hanno incluso nell’analisi anche i premi BAFTA, il corrispettivo britannico degli Oscar. C’è da dire che i BAFTA hanno una natura più internazionale: al contrario degli Oscar si rivolgono a produzioni sia inglesi che internazionali. Nonostante questo, appare subito chiaro l’effetto “legge dei grandi numeri” spiegato sopra: anche qui la maggioranza degli attori nominati e premiati sono infatti americani. Questo è dovuto al peso della cinematografia USA non solo nel proprio paese ma anche nel panorama internazionale, tanto più quello britannico.

Le cose si fanno però interessanti quando si confrontano nominati e vincitori, perché qui le cose si ribaltano. Per quanto riguarda gli attori inglesi nei BAFTA, la percentuale di nominati è solo il 18%, ma sale ben al 34% fra i premiati. L’effetto è esattamente speculare a quello osservato per gli americani negli Oscar.

Per chiarezza: entrambe le giurie (l’Accademia americana e quella britannica) per quel che riguarda il premio come miglior attore/attrice dichiarano che il loro scopo è il riconoscimento delle più brillanti performance in tutto il mondo. Dovrebbero cioè giudicare l’eccellenza, indipendentemente dalla nazionalità, ma così evidentemente non è. Quando si tratta di assegnare il premio – e forse lo stesso meccanismo è in azione, seppure con un’intensità minore, già quando si formula la nomination – a parità di condizioni, i connazionali sono favoriti.

Potrebbe trattarsi di semplice campanilismo, anche inconsapevole, slegato dalla vera opinione sulla performance attoriale, ma secondo Steffen e gli altri non è così: c’è una vera e propria distorsione nella percezione della qualità dovuta al senso di comunanza fra giudice e attore quando questi condividono dei valori socio-culturali. Secondo Steffen per davvero gli americani vedono come migliori le prove attoriali degli americani, idem gli inglesi con gli inglesi, ma non vi è alcuna consapevolezza né dolo.

Autori e opere dei paesi tuoi

Gli scienziati supportano la spiegazione in diversi modi. Intanto, raccontano, lavori precedenti, condotti in laboratorio dimostrano che in contesti dove pur si registra una grande coerenza nei giudizi su un’opera creativa (ciò che è bello o brutto è tale per tutti) i giudizi sono anche influenzati da quanto i gruppi sociali di giudice e autore sono condivisi. In un certo senso è controintuitivo, poiché l’opera di creatività dovrebbe essere premiata per la sua originalità e capacità di inventare nuovi contenuti e modi di esprimersi, mentre invece questo aspetto viene apprezzato solo fintantoché resta nei confini di un linguaggio comune fra chi crea e chi giudica.

Questa visione è supportata da una sotto-indagine nel lavoro di Steffen: da ulteriori analisi emerge infatti che non solo è meglio essere americani per vincere l’Oscar (o inglesi per il BAFTA) ma che la probabilità di vittoria aumenta ancor più se anche l’argomento del film è americano (o viceversa inglese). Questa parte della ricerca, ammettono gli autori, ha un valore esplorativo, ma offre indicazioni per approfondimenti futuri. In generale i limiti di questa ricerca sono molti, e gli autori stessi li evidenziano nel paper, chiarendo alcuni dubbi (qui potete leggere il lavoro originale).

Che dire, alla fine ci hanno spiegato l’ovvio: gli Oscar li vincono (in genere) gli americani, ma ci dicono anche quanto siamo suscettibili nei nostri giudizi di forti effetti (anche percettivi) legati a cultura e ambito sociale, anche in ambiti “neutri” come possono essere le valutazioni di opere creative. Viste le polemiche dell’anno scorso sarebbe interessante analizzare se questo tipo di bias si riflette anche, all’interno della stessa nazionalità americana, fra gruppi etnici diversi, vale a dire bianchi, afro-americani e latini. Intanto quest’anno finalmente gli afro-americani hanno incassato una buona percentuale di nomination, non resta da vedere se questo bilancio si manterrà inalterato anche nei premi. Se dovesse cambiare radicalmente, un’idea del perché ce l’abbiamo.

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.