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Ghiacciai alpini, sempre più in alto per monitorare il global warming

I ghiacciai italiani del futuro saranno sempre più simili alle valli alpine, agli Appennini e ai Pirenei.

Per il ghiacciaio del Careser esiste la più lunga serie di misura di bilancio di massa per le Alpi italiane. Purtroppo questo ghiacciaio si trova a una quota piuttosto bassa ed è particolarmente sensibile alle variazioni climatiche. Crediti immagine: Wikimedia Commons

SPECIALE FEBBRAIO – Solo negli ultimi 50 anni la superficie glaciale del territorio italiano si è ridotta di circa il 35%, stando ai dati forniti dal Catasto dei Ghiacciai Italiani aggiornato al 2015 e realizzato dai glaciologi dell’Università di Milano.  Secondo il rapporto, in generale, tutti i ghiacciai, indipendentemente dalla dimensione e posizione geografica, si sono rimpiccioliti considerevolmente e circa 200 su più di un migliaio censiti sono scomparsi del tutto. In particolare, nell’ultimo quarto di secolo i ghiacciai alpini hanno perso una massa equivalente a 2000 miliardi di litri di acqua, bilancio su cui pesano maggiormente le ferite del Ghiacciaio Aletsch, il ghiacciaio del Lys e del Monte Rosa, tra gli altri.

Tra i responsabili dell’anomalo e massiccio ritiro glaciale, il principale indiziato è il riscaldamento globale, la causa dell’innalzamento delle temperature globali negli ultimi decenni, della diminuzione del numero di nevicate e, quindi, della riduzione della cosiddetta copertura nivale. La conseguenza ambientale più pesante e immediata di questo fenomeno per le attività umane, oltre all’inevitabile impoverimento paesaggistico, è la perdita di risorse idriche: meno acqua di fusione per mitigare le siccità durante le estati sempre più calde e secche, per esempio, o per alimentare gli impianti idroelettrici.

Durante questa fase di degrado, grazie alla loro trasformazione così repentina i ghiacciai, da vittime del global warming, sono diventati in qualche modo alleati degli esseri umani nel monitoraggio e nello studio del cambiamento climatico. Il contributo di questi testimoni naturali, tuttavia, rischia di perdersi insieme ai ghiacciai stessi, in tempi brevissimi stando alle previsioni.
Per continuare a raccogliere dati utili, i glaciologi devono iniziare a osservare più in alto, per esempio al ghiacciaio de la Mare. Bisogna, cioè, ripensare le attuali procedure di misura del bilancio di massa – ovvero la quantità di ghiaccio persa o guadagnata – e adattarle a ghiacciai che godono di posizioni per il momento meno a rischio.
Proprio di questo si è occupato un team di ricerca guidato da Luca Carturan dell’Università di Padova, con un lavoro pubblicato su Journal of Glaciology.

Cambia il clima, le misure si adattano

I segnali di fusione dei ghiacciai non sono certo recenti. “I ghiacciai italiani, come gran parte di quelli delle Alpi europee, sono in una fase di riduzione che perdura mediamente da metà XIX secolo, interrotta da brevi fasi di stazionamento o avanzata a fine ‘800, negli anni ’20 e negli anni ’70-’80 del XX secolo” ci spiega Luca Carturan ” In ogni caso, salvo poche eccezioni, durante queste fasi i ghiacciai non hanno più raggiunto estensioni confrontabili con quelle dei massimi della Piccola Età Glaciale.

Negli ultimi anni però, il processo di ritiro glaciale, sebbene generalizzato, ha iniziato a farsi più evidente nei ghiacciai di bassa quota e con un limitato sviluppo altimetrico: questi ghiacciai si stanno quindi estinguendo più rapidamente.
“I ghiacciai con maggiore sviluppo altimetrico sono in minor disequilibrio e, entro certi limiti, hanno ancora una ‘capacità di adattamento’, ovvero con le condizioni climatiche attuali sono destinati a ridursi fortemente ma non a scomparire del tutto.”

“Altri ghiacciai che mostrano una certa ‘resilienza’ sono quelli alimentati da valanghe, che beneficiano particolarmente di inverni ricchi di neve, e che spesso sono anche coperti da uno strato di detriti più o meno spesso in grado di preservarli dall’ablazione. A queste conclusioni siamo giunti con due nostri studi recenti. Il primo ha analizzato sul gruppo Ortles-Cevedale il diverso comportamento di un gruppo eterogeneo di ghiacciai, con il fine di mettere in evidenza le diverse dinamiche in atto e comprendere le differenze nel comportamento dei singoli ghiacciai. Nel secondo studio abbiamo analizzato un piccolo ghiacciaio alimentato da valanghe e coperto di detriti.”

In questo scenario, per osservazioni di lunga durata il Ghiacciaio di La Mare rappresenta un caso studio ideale?
Il ghiacciaio de La Mare è stato scelto per molteplici ragioni. Innanzitutto per la sua posizione geografica, vicina al ghiacciaio del Careser per il quale esiste la più lunga serie di misura di bilancio di massa per le Alpi italiane. Purtroppo il ghiacciaio del Careser è uno di quei ghiacciai a quota piuttosto bassa e con limitato range altimetrico, che come detto in precedenza sono particolarmente sensibili alle variazioni climatiche. Questo ghiacciaio si sta riducendo molto velocemente, e con esso è a rischio anche la prosecuzione della serie di misurazione del bilancio. Il ghiacciaio de La Mare è un buon candidato per poter proseguire con questo tipo di misurazioni nel gruppo Ortles-Cevedale perchè, grazie a una quota media maggiore e a un maggior range altimetrico (raggiunge i 3769 m), conserva tuttora un’area di accumulo (a differenza del Careser) e quindi è potenzialmente in grado di ‘sopravvivere’ più a lungo.  Altri elementi che ci hanno fatto scegliere La Mare sono la relativa facilità di accesso e l’esistenza di una serie di osservazioni più che secolare, da parte del Comitato Glaciologico Italiano. Si tratta inoltre di un ghiacciaio rappresentativo a scala regionale, e particolarmente adatto per comprendere i processi fisici che regolano la risposta dei ghiacciai alle variazioni climatiche. Per questa ragione abbiamo installato sul ghiacciaio delle stazioni meteorologiche che ci consentono di studiare questi processi. E, inoltre, è anche un bellissimo ghiacciaio!

In che modo viene effettuata tradizionalmente la misura di bilancio di massa?
La misura del bilancio di massa con il metodo glaciologico consiste nel misurare direttamente sul ghiacciaio, in corrispondenza di alcuni punti rappresentativi, gli scambi di massa. Nella zona di ablazione (la parte inferiore del ghiacciaio, dove prevalgono le perdite) il bilancio viene misurato mediante l’infissione di paline nel ghiaccio.
La sporgenza di queste paline dal ghiaccio aumenta con il procedere della fusione, e quindi misurandola è possibile quantificare le perdite per ablazione. Nella zona di accumulo (parte superiore del ghiacciaio, dove normalmente prevalgono gli accumuli, sotto forma di neve invernale che ‘sopravvive’ alla stagione estiva) si misura la neve residua, alla fine dell’estate, mediante sondaggi di spessore. Queste misure puntuali vengono quindi estese all’intera superficie del ghiacciaio per mezzo di tecniche di interpolazione/estrapolazione spaziale.

Nello studio sono descritti tre metodi di misura: glaciologico, geodetico, idrologico. Cosa dicono i risultati? Si potranno continuare a monitorare l’evoluzione dei ghiacciai e gli effetti del riscaldamento globale?
I risultati mostrano un buon accordo fra i tre metodi indipendenti di misurazione. Questa cosa non è scontata, vista la difficoltà nel misurare il bilancio con il metodo glaciologico a causa della presenza di aree inaccessibili (crepacci, seracchi, zone ripide) e la sua estensione, che riduce forzatamente il numero e la densità spaziale dei punti di misurazione. Il ghiacciaio conserva attualmente un’area di accumulo, la cui estensione però non è in grado di garantire condizioni di equilibrio.

Abbiamo quantificato che, per raggiungere l’equilibrio con le condizioni climatiche attuali, è necessario che il ghiacciaio si ritiri ulteriormente perdendo un altro 50% della sua superficie. Un ulteriore aumento della temperatura, tuttavia, potrebbe portare alla scomparsa totale del ghiacciaio, e con esso di gran parte dei ghiacciai dell’Ortles-Cevedale. Probabilmente riuscirebbero a preservarsi solo piccoli ghiacciai in aree di sovraccumulo nevoso, grazie all’azione del vento o delle valanghe, oppure quelli fortemente coperti di detrito.

In questo caso, tuttavia, i ghiacciai persisterebbero solo grazie a condizioni micro-climatiche e topografiche locali, ed eventuali misure di bilancio di massa perderebbero in gran parte la loro significatività, in termini di fondamentale indicatore climatico.

Quale sarà il futuro del ghiacciaio di La Mare: si evolverà come altri ghiacciai alpini, spezzandosi in più parti?
Il ghiacciaio de La Mare è in fase di rapida riduzione e tra il 2003 e il 2013 ha perso il 13% dell’area. Ciò deriva da bilanci di massa annuali ripetutamente negativi, con l’unica eccezione del 2013 (bilancio in pareggio) e del 2014 (bilancio positivo). Si stanno verificando profonde modificazioni morfologiche e il ghiacciaio è ormai prossimo a dividersi in due sub-unità, quella meridionale e quella settentrionale. Questo ghiacciaio non potrà beneficiare probabilmente di estese e spesse coperture detritiche, in grado di preservarlo, data la mancanza di pareti rocciose che lo delimitino, in grado di contribuire con quantità di detrito sufficiente.

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.