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Beata ignoranza: vorremmo conoscere il futuro?

La storia di Cassandra ci ricorda che il dono della preveggenza può non essere cosa positiva. E di fronte al rischio, la nostra naturale tendenza alla conoscenza vacilla parecchio.

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Di fronte alla scelta di conoscere il proprio futuro, la maggior parte delle persone sembra più incline a restare all’oscuro di quello che le riserva. Crediti immagine: Public Domain

SCOPERTE – Voler sapere più cose possibili sembra la naturale condizione umana, ma non secondo un nuovo studio: se ci danno la possibilità di conoscere cosa ci riserva il futuro, generalmente preferiamo non saperlo. La propria morte, la morte del partner, la sorte del proprio matrimonio, l’esistenza di una vita dopo la morte. Eventi negativi ma non solo, tendiamo a preferire l’ignoranza anche se all’orizzonte potrebbe esserci qualcosa di positivo, dice un nuovo studio pubblicato dalla American Psychological Association su Psychological Review, la combinazione di due sondaggi condotti su oltre 2000 persone adulte tra Spagna e Germania.

Secondo Gerd Gigerenzer del Max Planck Institute for Human Development, a capo dello studio, il fatto che la maggior parte delle persone scelga di non sapere sembra quasi contro-intuitivo. Eppure è quello che ha trovato con i colleghi: tra l’85 e il 90% dei partecipanti ha dichiarato che non vorrebbe essere informato dei futuri eventi negativi, mentre tra il 40 e il 70% preferiva restare ignaro anche di quelli positivi, come il regalo che avrebbero ricevuto a Natale.

Più l’ipotetico evento è percepito come vicino, per di più, meno si vuole sapere: le persone più anziane scelgono di non conoscere la data della propria morte più spesso rispetto ai giovani.

Quanti erano fermamente convinti di voler conoscere ciò che li aspettava? Solo l’1%. Secondo gli scienziati – che all’inizio della pubblicazione inseriscono ad hoc una citazione tratta dall’Orestea su Cassandra, sola ed esclusa dalla società a causa del dono della preveggenza – l’obiettivo è evitare le sofferenze e il rimpianto che conoscere il futuro e soprattutto le cattive notizie possono provocare. Quando James Watson, il co-scopritore del DNA insieme a Francis Crick, acconsentì a far sequenziare il proprio genoma, lo fece a condizione che il suo genotipo ApoE4 (che indica il rischio di Alzheimer) fosse escluso dalla pubblicazione e che non glie ne fosse fatta parola.

Un’altra ragione per stare lontani dalla conoscenza anticipata è evitare il classico effetto “spoiler”, ovvero rovinarsi la sensazione positiva che coglie al verificarsi degli eventi favorevoli. “L’ignoranza [intesa come non conoscenza] volontaria, come abbiamo mostrato, non solo esiste; è un modo di pensare diffuso di fronte a questioni come la morte e il divorzio”, scrivono Gigerenzer e colleghi, “ma anche gli eventi positivi studiati in questo articolo. […] Rifiutando il potere che ha reso famosa Cassandra, si può evitare la sofferenza che conoscere il futuro potrebbe causare, il rimpianto, nonché mantenere il piacere della suspense che ci danno gli eventi positivi”.

Gli scienziati hanno anche scoperto che le persone che preferiscono non sapere cosa le aspetta nel futuro sono anche quelle meno propense a correre rischi e che tendono a stipulare assicurazioni, anche sulla vita. Il che, dice Gigerenzer, fa pensare che scelgano di non sapere anticipando il rimpianto. “Proponiamo una teoria del rimpianto dell’ignoranza volontaria”, scrivono i ricercatori nel loro articolo. Il rimpianto, regret in inglese, è un’emozione negativa che sperimentiamo dopo aver scelto un’opzione A per poi scoprire che la migliore era la B. L’anticipazione del rimpianto è un’emozione diversa, che si verifica ancor prima che la decisione sia stata presa.

Nell’indagine c’è stata una sola eccezione: l’unica domanda del sondaggio a ricevere una percentuale più elevata di risposte positive (65% sì contro 35% no per la Spagna, 60% si contro 40% no per la Germania ) è stata “vorresti conoscere il sesso di tuo figlio?”. Un’informazione che -a differenza dell’esistenza di una vita dopo la morte o la sorte di un matrimonio- possiamo effettivamente avere nella realtà e che consente, ad esempio, di pianificare in anticipo alcuni aspetti della vita con il nuovo nato.

Il fatto che sia una domanda realistica, a differenza di molte altre nel questionario, mette la pulce nell’orecchio da subito. Non sarà che si sceglie di saperlo perché è qualcosa che davvero potremmo sapere? Nel momento critico, trovandosi davvero di fronte alla scelta se sapere o no, i partecipanti avrebbero dato al medico la stessa risposta? Alla fine del paper gli scienziati trattano anche questo aspetto: questo studio non può dire se i genitori avrebbero rifiutato davvero di conoscere il sesso del nascituro in sede di amniocentesi o ultrasuoni, scrivono, ma altri studi l’hanno fatto.

Nel 2012 è stato chiesto a un gruppo di donne che stavano per fare un’amniocentesi (per via dell’età avanzata) se avrebbero voluto sapere se si trattava di un maschio o di una femmina. Il 31% di loro ha detto di no, una percentuale simile a quelle riscontrate nel lavoro di Gigerenzer. A un piccolo gruppo di donne (148) che avevano già partorito è stato poi domandato se sapevano già il sesso del nascituro prima del parto e il 45% ha risposto che aveva scelto di non conoscerlo. Per oltre nove donne su 10 la ragione era non rovinarsi la sorpresa, perché non saperlo era più divertente. Risultati simili li ha dati un’indagine condotta a Boston, che ha coinvolto sia madri che padri: a 1340 donne e loro partner è stato chiesto, subito prima degli ultrasuoni, se volevano sapere il sesso del nascituro. Il 42% ha detto di no.

@Eleonoraseeing

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".