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Lettera dei 600: Tutta colpa delle primarie?

“L’idea sottostante alla lettera è che la lingua nel suo apparato formale si debba insegnare e apprendere nei primi anni, mentre quello che viene dopo non sembra essere d’interesse ai firmatari.

La valorizzazione della competenze di base c’è, gli obiettivi linguistici ci sono, come anche anche i momenti di verifica scanditi e regolari, perché tanto clamore nel ribadire delle pratiche già previste da tempo? Crediti immagine: Pixabay

ATTUALITÀ – Come anticipato la settimana scorsa, OggiScienza torna a occuparsi della lettera dei 600”, la lettera aperta al Governo dove qualche settimana fa un nutrito gruppo di professori universitari denunciava le scarse competenze linguistiche degli studenti universitari italiani. La scorsa settimana abbiamo cercato di disegnare un quadro complessivo, fondato sui dati internazionali, della reale alfabetizzazione dei ragazzi italiani, che appariva un po’ più complesso di quanto riportato nella lettera. Questa settimana ci soffermeremo invece sulla seconda parte del testo, ovvero sulle richieste di intervento proposte. La domanda infatti è: anche in base a quanto appreso dalle varie survey internazionali (PISA, PIAAC, PIRLS, ecc), gli interventi proposti servono a migliorare la situazione?

Come abbiamo già detto, i 600 individuano nelle scuole del primo ciclo (primarie e secondarie inferiori) il nocciolo del problema per il quale chiedono:

  • una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari. Tali indicazioni dovrebbero contenere i traguardi intermedi imprescindibili da raggiungere e le più importanti tipologie di esercitazioni

“Ma lo fanno già!”. Il commento sorpreso è di un’insegnante delle medie che ho interpellato per chiarimenti, Marta Picciulin, a lungo anche collaboratrice di OggiScienza e giornalista scientifica. “Qui, pagina 34-35. Le indicazioni nazionali sono prescrittive (pagina 5 dello stesso documento) cioè i docenti sono obbligati a sviluppare quelle competenze entro i 3 anni (si riferisce alle secondarie inferiori dove insegna, per le elementari valle lo stesso sui 5 anni)” aggiunge.

Perché allora chiedere qualcosa di già esistente? La rettifica pubblicata successivamente alla prima lettera cerca di chiarire:

  • “si obietta che le Indicazioni nazionali già dicono quello che chiede la lettera. Sì e no: c’è infatti il grave limite di presentarsi come un elenco di molteplici, forse troppi obiettivi, senza che sia chiaro fin dove si può spingere l’autonomia della “comunità professionale” che “è chiamata ad assumere e a contestualizzare” tali indicazioni e senza indicare le priorità imprescindibili. In altre parole, fino a che punto un docente è libero di non tenerne conto nelle sue scelte? Per fare un esempio: è lecito saltare a piè pari il Rinascimento o la geografia dell’Italia? Infine, se ci sono dei traguardi da raggiungere, non si  dovrebbe poi verificare se e in che misura questo è accaduto?

Ma come dicono Picciulin e lo stesso documento del MIUR, le indicazioni sono prescrittive, significa che vanno rispettati e vanno tenuti in considerazione in toto. Non si salta nulla, al massimo si può variare minimamente l’ordine degli argomenti e i tempi in cui svolgerli (sempre e comunque entro i 5 anni delle primarie o i tre delle secondarie inferiori).

Riassumendo: la valorizzazione della competenze di base c’è, gli obiettivi linguistici ci sono, come anche anche i momenti di verifica scanditi e regolari (basta chiedere ad alunni e genitori per averne conferma). Niente di nuovo, perché dunque tanto clamore nel ribadire delle pratiche già previste da tempo?

Un altro dato conferma che non sono i “programmi” il problema: si tratta del divario, di cui abbiamo parlato anche la settimana scorsa, esistente nelle prestazioni degli studenti fra nord e sud, con il primo in posizione superiore alla media OCSE e il secondo che arranca. Le scuole del Nord e del Sud seguono gli stessi “programmi”. Il problema forse sta altrove, dunque. Tralaltro il divario geografico si evidenzia dalle secondarie inferiori in poi, mentre la prestazione alle primarie è sempre piuttosto buona.

Apprendimento continuo

Anche Maria Lo Duca, linguista dell’Università di Padova, ribadisce: “se si leggono le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo 2012, si vedrà che l’attenzione alla lingua è costante”.

Lo Duca è, fra le varie cose, un’esperta per le prove di italiano per le prove Invalsi e nei giorni scorsi ha pubblicato una lettera in risposta a quella dei 600, che lei non ha firmato. “Non mi hanno nemmeno chiesto di farlo”, puntualizza. “Forse perché già in passato ho preso posizioni che si discostano da quella da loro espressa”.

È corretto riversare le carenze linguistiche di uno studente universitario sulle supposte carenze delle scuole del primo ciclo frequentata dallo stesso? Lo Duca pensa che sia un discorso troppo riduttivo, non si può guardare solo alla scuola primaria, come sembrano fare i firmatari della lettera. Si tratta piuttosto di un crescendo di depauperizzazione dell’insegnamento dell’italiano, man mano che si procede con la carriera scolastica, aggiunge Lo Duca.

“Sono piuttosto le linee guida date per i licei, istituti tecnici e professionali, del 2010, che sono più carenti, vaghe”, spiega Lo Duca nella sua lettera. Ci si concentra molto sulla letteratura, ma le prove in cui lo studente può scrivere ed esprimersi in italiano sono esigue (il compito in classe diventa l’unico momento in cui lo studente può davvero esercitarsi con la lingua italiana). Questo declino poi culmina proprio all’Università, che non investe per nulla in questo campo: ci si attende di trovare lo studente già formato per la scrittura specialistica – quella che risulta poi nella tesi –  spiega. “All’Università si scrive poco e non si corregge quasi mai: al massimo si rilevano – e si valutano – gli errori di contenuto e ci si scandalizza del resto”. Lo Duca denuncia inoltre che gli stessi futuri insegnanti di lettere all’Università non vengono adeguatamente formati sulla lingua italiana. “E così il cerchio si chiude”.

Insomma, spiega Lo Duca “l’idea sottostante alla lettera è che la lingua nel suo apparato formale si debba insegnare e apprendere nei primi anni, che vanno grosso modo dai 6 ai 14 anni”, mentre quello che viene dopo non sembra essere d’interesse ai firmatari. In realtà, spiega sempre Lo Duca, la lingua non si dà una volta per tutte, è un processo lungo e complesso che riguarda tutta la vita scolastica.

La scuola non basta

E probabilmente non solo questa, ma anche tutto l’ambiente socio-culturale in cui viviamo. Che non è dei più favorevoli forse, visto che a quanto pare in Italia la cultura non paga. Un ultimo dato, infatti, potrebbe aprirci un po’ gli occhi: il rapporto PIAAC dimostra che in Italia, a differenza della maggior parte dei paesi OCSE, una maggior scolarizzazione porta pochissimi vantaggi dal punto di vista remunerativo (qui, prima pagina, il quinto punto delle ”problematiche chiave”).

Questo dato sugli stipendi, la scarsa propensione degli italiani alla lettura (come testimoniato dai dati ISTAT per esempio), i dati scarsi a livello internazionale anche nell’alfabetizzazione matematico-scientifica, la fuga dei cervelli, sono tutti tasselli che compongono un’immagine poco rassicurante di un Paese che non sembra dare il giusto valore alla conoscenza. Non è solo colpa delle primarie, dunque. Anzi.

Leggi anche: Il “declino” dell’italiano a scuola: diamo i numeri

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.