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Il diritto di contare: la storia dietro il film

Diretto da Theodor Melfi e candidato a tre premi Oscar (tra cui quello come miglior film), Hidden Figures è tratto dall’omonimo bestseller di Margot Lee Shetterly.

12 aprile 1961: il cosmonauta russo Jurij Gagarin, all’interno della navicella Vostok 1, è il primo uomo a volare nello spazio. Pochi mesi dopo, il 20 febbraio 1962, l’astronauta americano John Glenn compie un’impresa analoga a bordo della capsula Friendship 7, riuscendo a completare tre delle sette orbite previste attorno alla Terra prima di ammarare sano e salvo al largo delle Bahamas. Sono anni strani e contraddittori, grandi slanci verso il futuro convivono con ideologie e antichi razzismi. La corsa allo spazio subisce un’improvvisa accelerazione a causa dell’inasprirsi della guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica. In Virginia, dove si trova il Langley Research Center, uno dei più importanti centri operativi della NASA, vige ancora la segregazione razziale. Essere afroamericani non è semplice, essere donne afroamericane è ancora più difficile, essere donne afroamericane e avere un ruolo all’interno della NASA sembra impossibile. Sembra. Tre donne riescono a fare la differenza. La loro storia è raccontata nel film Hidden Figures (in italiano Il diritto di contare) appena uscito nelle sale e incentrato sulle figure di Mary Jackson, Dorothy Vaughan e Katherine Goble Johnson, tre donne afroamericane che – sfidando razzismo, sessimo e leggi segregazioniste – hanno dato un contributo fondamentale ai programmi spaziali della NASA, a cominciare dalla missione che portò John Glenn in orbita intorno alla Terra.

La storia dietro il film

Katherine Goble Johnson nasce il 26 agosto 1918 a White Sulphur Springs, un piccolo borgo nella contea di Greenbier, in Virginia Occidentale. Sin dalla più tenera età mostra di avere uno speciale talento per la matematica. Si diploma a 14 anni e accede al West Virginia Black College, università per soli neri dove nel 1937, non ancora diciannovenne, si laurea in matematica e francese. Nel 1939 è la prima donna afroamericana a frequentare i corsi di specializzazione in matematica della West Virginia University, fino all’anno prima aperti ai soli studenti bianchi. Vorrebbe dedicarsi alla ricerca, ma in quegli anni l’unica prospettiva possibile per una donna come lei è l’insegnamento. Katherine lavora per anni in una scuola per soli neri finché, nel 1952, viene a sapere che il National Advisory Committee for Aeronautics (NACA), ente federale americano nato per promuovere la ricerca aeronautica, è in cerca di donne afroamericane con competenze matematiche da assumere presso la West Area Computing Unit, sezione distaccata del Langley Research Center di Hampton, in Virginia.

Aperta alle sole donne di colore, la West Area Computing Unit funzionava secondo le disposizioni delle cosiddette leggi Jim Crow, norme emanate dai singoli stati con lo scopo di tenere in vita la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici. “Separati ma uguali”, era questo il principio secondo cui bagni, biblioteche, autobus e uffici per neri erano tenuti separati da quelli per bianchi. Le donne in servizio presso la West Area Computing Unit lavoravano come colored computers, ovvero “calcolatori umani di colore”, e si trovavano al livello più basso della gerarchia del Langley Center. Il loro scopo era quello di verificare e validare – a mano o con l’ausilio di semplici calcolatrici – i complessi calcoli elaborati nelle altre strutture del centro di ricerca. Così, nel 1953, la brillante matematica Katherine Johnson inizia a lavorare come colored computer. Negli uffici segregati della West Area Computing Unit conosce due donne altrettanto brillanti, con una storia personale simile alla sua (laurea col massimo dei voti, insegnamento, assunzione da parte del NACA): Dorothy Vaughan, matematica originaria del Missouri, e Mary Jackson, laureata in fisica e matematica ma appassionata di ingegneria. Le tre, assieme a decine di altre colored computers, lavorano dietro le quinte fino a quando – grazie a una serie di circostanze, ma soprattutto alla loro tenacia – riescono a far emergere le loro qualità.

Nel 1958 dalle ceneri del NACA nasce la National Aeronautics and Space Administration (NASA). Quell’anno tutte le strutture segregate, tra cui la West Area Computing Unit, vengono smantellate. Katherine Johnson inizia a lavorare presso lo Space Task Group, dove nel corso degli anni si occupa di calcolare le finestre di lancio, le traiettorie e i percorsi di ritorno di tantissimi voli spaziali, da quello di Alan Shepard – il primo astronauta americano nello spazio – sino agli Space Shuttle dei primi anni Ottanta, passando per la missione Apollo 11 del 1969. Nel 1962, poco prima di partire per il suo storico viaggio orbitale, John Glenn – non fidandosi dei calcoli realizzati dal computer IBM da poco in dotazione alla NASA – chiederà proprio a Katherine Johnson la verifica di tutti i dati. L’introduzione dei computer elettronici segna una svolta nella carriera di Dorothy Vaughan. Consapevole dell’importanza della tecnologia informatica, la Vaughan studia il linguaggio di programmazione FORTRAN e lo insegna alle altre donne precedentemente impiegate come colored computers; diventa così leader e supervisore di una piccola task force di programmatrici. Per ottenere la qualifica di ingegnere, Mary Jackson riesce a ottenere il permesso, da parte del comune di Hampton, di frequentare i corsi serali di matematica e fisica organizzati dalla University of Virginia presso una struttura riservata ai soli studenti bianchi. Nel 1958 diventa la prima ingegnera aerospaziale afroamericana in forza alla NASA.

Il diritto di contare

Il film è quasi interamente ambientato tra il 1961 e il 1962 e racconta parte della storia di queste tre donne (l’attenzione è focalizzata soprattutto sulla figura di Katherine Goble Johnson), attraverso la narrazione degli eventi che portarono al lancio in orbita di John Glenn. La ricostruzione degli aspetti scientifici è accurata, mentre l’aderenza ai fatti storici viene parzialmente messa da parte per esigenze sceniche. La West Area Computing Unit, per esempio, è ancora attiva nel 1961 e le leggi segregazioniste sono in vigore anche all’interno della NASA, tanto che Katherine Johnson, magistralmente interpretata da Taraji P. Henson, dopo aver cominciato a lavorare nello Space Task Group è costretta a percorrere un chilometro a piedi per poter raggiungere l’unico bagno riservato alle persone di colore. Mary Jackson (Janelle Monáe) si rivolge addirittura a un tribunale dello stato della Virginia per poter seguire i corsi serali che le consentiranno di diventare ingegnere, quando in realtà – come abbiamo visto – si era limitata a chiedere un permesso speciale al comune di Hampton, mentre i lavoratori bianchi del Langley Research Center sono dipinti come più razzisti di quanto non fossero in realtà; su tutti Paul Stafford, l’odioso ingegnere capo dello Space Task Group, interpretato dall’ottimo Jim ‘Sheldon Cooper’ Parsons. Insomma, gli sceneggiatori hanno scelto di accentuare le difficoltà e gli ostacoli delle protagoniste in modo da dare più risalto al loro coraggio e alla loro tenacia, a discapito dell’accuratezza storica. Tali libertà narrative, che sarebbero state inaccettabili in un documentario, sono però perfettamente comprensibili in un film come questo, e anzi ne costituiscono uno dei punti di forza. In questo modo l’impatto emotivo della storia è decisamente più forte e il film riesce, in sole due ore, a trasmettere tutta la sofferenza e la tensione dietro decenni di segregazione razziale. Per queste ragioni, Il diritto di contare è sicuramente un film riuscito, in grado di rendere perfettamente l’atmosfera di un periodo storico estremamente complesso, in cui le tensioni politiche della guerra fredda si intrecciano con le speranze della corsa allo spazio e la stupidità del razzismo non può che fare un passo indietro di fronte al genio di tre donne eccezionali.

Leggi anche: Donne e ricerca: alcuni dati

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Simone Petralia
Giornalista freelance. Amo attraversare generi, discipline e ambiti del pensiero – dalla scienza alla fantascienza, dalla paleontologia ai gender studies, dalla cartografia all’ermeneutica – alla ricerca di punti di contatto e contaminazioni. Ho scritto e scrivo per Vice Italia, Scienza in Rete, Micron e altre testate. Per OggiScienza curo Ipazia, rubrica in cui affronto il tema dell'uguaglianza di genere in ambito scientifico attraverso le storie di scienziate del passato e del presente.