AMBIENTEricerca

Cetacei: il costo della fuga

Quando si spostano per scappare da una potenziale minaccia come un sonar, i cetacei nuotano più rapidamente anche del 30%. Un dispendio energetico che gioca un ruolo negli spiaggiamenti.

L’inquinamento acustico in ambiente marino può causare un disturbo per i cetacei, aumentando notevolmente il costo energetico del nuoto. Crediti immagine: Gregory “Slobirdr” Smith, Flickr

AMBIENTE – Quando un cetaceo scappa da un sonar a basse frequenze, il movimento richiede oltre il 30% di energia in più rispetto a quella che userebbe normalmente. Lo ha quantificato un nuovo studio guidato dalla biologa Terrie Williams dell’Università della California, esperta di ecofisiologia dei grandi mammiferi che da molti anni studia il rapporto tra il dispendio energetico di questi animali marini e la loro limitata riserva di ossigeno.

Williams, che ha pubblicato i suoi risultati sul Journal of Experimental Biology, si è resa conto che solo pochi studi, finora, avevano davvero misurato il costo che un delfino o una balena devono sostenere quando si immergono normalmente o quando mettono in atto una flight response (dunque scappano) perché disturbati da un elemento come un sonar.

I movimenti nel nuoto non sono tutti uguali, e la scoperta ha importanti implicazioni per capire meglio i fenomeni come gli spiaggiamenti di massa, fenomeni dei quali abbiamo ancora molto da scoprire nonostante nel corso del tempo se ne siano verificati svariati. Di recente, per esempio, 416 globicefali si sono arenati sulla spiaggia di South Island in Nuova Zelanda. In Florida, a fine gennaio, più di 80 pseudorche sono morte su una remota costa dell’Everglades National Park.

Per gli scienziati è piuttosto difficile riuscire a stabilire le cause di questi eventi, che possono essere direttamente antropiche – come appunto i sonar o collisioni con le imbarcazioni – ma anche legate alle fioriture algali, quando troppi nutrienti, spesso risultato dell’inquinamento, ed elevate temperature fanno proliferare le alghe che a loro volta rilasciano tossine nell’acqua.

I protagonisti dell’esperimento di William e colleghi sono stati sei tursiopi che in passato avevano già partecipato ai programmi della marina militare USA, nei quali questi cetacei (anche noti come military dolphin) vengono addestrati per operazioni di salvataggio o per identificare le mine.

Lavorando con una squadra di addestratori esperti, William e i colleghi hanno fatto partecipare i sei tursiopi a dei “test” di nuoto che hanno permesso di misurare il costo metabolico dei diversi stili di movimento e contare quante volte sbattevano le pinne. Nel primo hanno fatto nuotare i delfini al ritmo per loro più congeniale, mentre spingevano una piattaforma usata per le misurazioni verso il muro. Nel secondo hanno chiesto loro di immergersi a 10 metri di profondità e attraversare una serie di anelli prima di ritornare in superficie. Ogni volta che i tursiopi risalivano, la biologa e i colleghi registravano quanto ossigeno inalavano per “ricaricare” le loro scorte.

Dopo mesi di lavoro gli scienziati sono riusciti a calcolare che mentre nuota normalmente un tursiope consuma 3,3 joule per chilogrammo di peso a ogni colpo di pinna, un valore che quasi raddoppia se invece nuota sotto sforzo. Integrando queste misurazione con dati sulle orche, sui beluga e sulle focene, i ricercatori hanno elaborato un modello che consente di stimare il costo energetico del nuoto per qualsiasi cetaceo.

Nell’ambito dello studio Williams si è confrontata anche con Brandon Southall, esperto di bioacustica e zoologia degli animali marini ed ex direttore del NOAA’s Ocean Acoustics Program. Nelle sue ricerche Southall ha registrato come un altro cetaceo, lo zifio (Ziphius cavirostris), reagisce a 20 minuti di sonar e ha scoperto che passa da 13, 6 battiti di pinna al minuto a 17 al minuto.

Quali sono le implicazioni di questi numeri dal punto di vista della conservazione in mari e oceani? L’inquinamento acustico di origine antropica, alla base dei movimenti rapidi di fuga dei cetacei, è un problema in crescita e una grave minaccia. Che ci riguarda molto da vicino: nel mar Mediterraneo le aree inquinate in questo senso sono sempre di più e un rapporto pubblicato lo scorso anno ha analizzato il fenomeno, abbracciando il periodo compreso tra il 2005 e il 2013. Se nel 2005 l’inquinamento acustico riguardava circa 70 000 chilometri quadrati (meno del 4% del bacino del Mediterraneo) nel 2013 i numeri dipingevano una situazione ben più grave: 675 000 i chilometri quadrati interessati, il 27% del bacino.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Il traffico che assorda le manguste

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".